Violenza in scena, metafora di "noiosa" tranquillità
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Raccontare una storia significa metterla a disposizione di chi guarda e coinvolgerlo nel meccanismo delle parti. Quando il cineasta si rivolge alla camera e ne manipola il racconto si parla di metacinema, quel complicato intreccio di relazioni semiotiche in cui interagire (come una piattaforma digitale) vuol dire partecipare con gli occhi all’evento, senza poter intervenire secondo coscienza. Su questo assunto si basa e si basava Funny Games, delirante racconto di un normale giorno di follia.
Il film diretto da Michael Haneke nel 1997 è stato rigirato interamente scena per scena (shot by shot) sul suolo americano, dallo stesso regista ma con interpreti hollywoodiani (Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt e Brady Corbet), per darlo in pasto ad un pubblico affamato di horror ma che difficilmente reperisce un lavoro indipendente d’oltreoceano. Il riscontro in sala c’è stato, ma non quanto si sarebbe voluto. Perché Funny Games è un’opera disturbante nemmeno lontana parente dello squallido Hostel, sadismo teatrale messo a nudo, l’irruzione della violenza in una famiglia perbene come tante, che soffoca lo spettatore e lo tiene in ostaggio. In un giorno qualunque due ragazzi vestiti da golf s’infilano in una villetta al mare. Il pretesto sono delle uova, lo scopo seviziare e torturare padre, madre e figlio (cane annesso) in un brutale “gioco” al massacro tanto inutile quanto crudele. Questo è in fondo l’assunto del film, l’ingiustificazione della violenza messa in atto, il riscontro cercato e quasi ottenuto dal pubblico inchiodato e spaventato sulla sedia, la noia borghese che diventa spaccato del malessere contemporaneo, la rabbia sfogata in sadismo che diviene divertissment: un “gioco divertente” appunto. E basta. Haneke legge il proprio film come un piccolo gioiello dai mille sottotesti narrativi, in cui basta un telecomando e la storia riprende a proprio piacimento, il metacinema che diventa arte e sogno. L’effetto che lascia nelle viscere usciti dalla sala è incarnato dalla domanda senza risposta su quanto effimera sia la redenzione. Il Funny Games odierno, praticamente identico all’originale che già offriva una varietà di possibili letture, si fa ancora più stratificato e perverso. L’utilizzo contrapposto di elementi di rottura, dalla cavalleria rusticana di Mascagni a John Zorn che irrompe sui titoli di testa è sintomo di un silenzioso rombo latente, la quiete prima della tempesta ben rappresentata dal sorriso innocente dell’ignaro bambino. La critica alla società dello spettacolo non è mai stata così feroce, il senso di fastidio, disgusto e impotenza che il regista suscita nelle sue scene più forti, inquadrate con la calma statica di chi è intrappolato nell’obiettivo, vuole scuotere le coscienze, dimostrando come il male puro possa nascondersi nelle case di tutti, apparentemente dietro facce pulite e cordiali. Non c’è dunque da stupirsi di quello che sentiamo costantemente nei tg, Haneke ce lo mostra chiaro e tondo senza fare sconti nella sua reiterazione della crudeltà, un’odissea familiare che finisce rapidamente così come iniziata.
Titolo Originale: FUNNY GAMES
Regia: Michael Haneke
Interpreti: Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt, Devon Gearhart, Brady Corbet, Boyd Gaines
Durata: h 1.51
Nazionalità: GB, USA, Francia, Austria, Germania, Italia 2007
Genere: thriller