Aronofsky incornicia una ballata malinconica
L’ariete ha un duplice significato, la caparbietà e la cocciutaggine. Mickey Rourke le possiede entrambe, così come il personaggio da lui interpretato Randy The Ram Robinson, Randy l’ariete appunto. Laddove la testa serve a ragionare, spesso il cuore ha il sopravvento e quando l’ostinazione subentra è dura mettere a fuoco le priorità di una vita. Tanto quanto difficile risulta trovare il proprio posto in un mondo che ti idolatra e ti emargina allo stesso tempo.
The Wrestler, pellicola diretta con passione da Darren Aronofsky, è l’emblema del giro di boa, la rivincita ottenuta al prezzo più alto, tenerezza e rudezza di pari passo ad una realtà che è solamente show business e grida (della folla, dei lottatori, degli speaker). Il reale che entra nelle pieghe della farsa. La camera a spalla sottolinea le scelte di Randy, riprendere i contatti con l’umanità o proseguire sulla vecchia strada, farsi male dentro o lontano dai ring? Magnifica prova di Rourke, che oltre a metter tutto il sé stesso sfigurato, dona al wrestler una malinconia degna dei suoi vecchi film, in cui si ricordava di essere un ottimo attore.
Stavolta oltretutto ben coadiuvato, dall’impeccabile auspicata fiamma Marisa Tomei, sexy sia come stripper che come madre premurosa, e dalla figlia abbandonata, lacrime e volto della promessa Evan Rachel Wood.
Un inno alla mortalità della carne e alla solitudine dell’animo, che apre la mente e permette una commovente riflessione sui valori di famiglia (non solo quella americana di provincia), lealtà e intrattenimento costruito a tavolino. Perché sì, è un valore anche quello.
Il cammino polveroso del lottatore verso il palco assume i connotati di un repertorio musicale, che ci guida nelle periferie dell’anima, una città d’inverno posta ai margini della civiltà, mai così attuale, mai così cupa. Ritrovarsi dopo una sbandata e rendersi conto che non è possibile lasciarsi tutto alle spalle, ricominciare senza conseguenze. Come un ariete che sfonda la porta della propria coscienza e muro dopo muro si ritrova punto e a capo, in quel luogo primordiale che è anche il suo unico habitat, nonché rifugio sicuro, in mezzo alle urla, lontano dalla sofferenza.