Lo chef Velilla pone l'outing a capotavola
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Gusto è una parola che si può abbinare a diverse filosofie di pensiero, ma quando viene accostata ai cinque sensi il richiamo al piacere del cibo è immediato. Non s’intende con questo l’ingollare una pietanza o un vino pregiato fino a sazietà, ma assaporarla con delicatezza, trarne l’essenza della sua qualità, gustare appunto il risultato dell’arte culinaria.
Gusto è passione, la stessa che ha messo Nacho Garcia Velilla nel girare Fuori menù, commedia prelibatamente trasgressiva dalla Spagna con furore. Passione e coraggio, quello richiesto per portare al cinema una storia diversa come cita lo slogan, quella dello chef omosessuale Maxi, dai forti connotati anticonformisti e dal colorito linguaggio: sfrontato, irriverente e all’opposto dell’ipocrisia da puritanesimo.
Che poi in sintesi significa aprire la mente a nuovi orizzonti e lasciarsi andare, vivere la propria sessualità liberamente e guardare all’altro senza pregiudizio, evitando il cosiddetto sberleffo da caserma, troppo spesso dilagante.
Il tema affrontato è di quelli seri, la chiave di lettura scelta invece la commedia burlesque e il travestismo tanto caro alla cinematografia iberica, che in quanto a tematiche sociali ha messo la freccia sull’Italia, sorpassata sulla via della comprensione etica e sulla libertà di scelta. A partire dagli interpreti arruolati che sono un cast dalla comprovata alchimia, la compagnia dell’anello che gira attorno a Maxi, proprietario di un ristorante chic a La Chueca, quartiere gay di Madrid, impegnato con l’eredità di un passato etero e una nuova complicata relazione da gestire.
Fuori menù vuol dire esplorare il gusto del palato, staccarsi dal semplice genere prese&fornelli, guardare alla cucina come momento estatico di creatività e allo stesso tempo professione impegnativa. Velilla usa la sua abilità nel gestire le gag che si susseguono e tutte le piste narrative messe a bollire, riuscendo, se non in tutto, almeno a far ridere a crepapelle. Assistere alle peripezie dell’istrionico Javier Camara (pupillo di Almodovar) sono un toccasana per vincere la noia a tutto tondo, una catarsi agrodolce che il regista (protagonista di un esilarante cameo) dirige con senno, focalizzando l’attenzione sulla difficoltà e la vergogna dell’outing, anche in un paese estremamente liberal da questo punto di vista.
Non c’è spazio per la commozione, inserita con qualche tocco di pianoforte nel plot scritto dallo stesso Velilla con David Sánchez Olivas, Oriol Capel Mir e Antonio Sánchez, ma il risultato è un sofisticato piatto di sentimenti dall’umanità raffinata, un cinema progressista che sembra esclamazione diretta nel nuovo spirito contemporaneo, quel liberismo europeo che fa “gola” a molti e che tanti altri mettono in discussione. Satira, dunque, non di provincia, ma vera e propria fiction adeguata ai canoni moderni, nella quale godersi la vita significa apprezzarla fino in fondo, non per forza in maniera sobria. Ma decisa e molto, molto lentamente.