IL WRESTLER DERELITTO CHE RITORNA PADRE E UOMO
L’ariete ha un duplice significato, la caparbietà e la cocciutaggine. Mickey Rourke le possiede entrambe, così come il personaggio da lui interpretato Randy The Ram Robinson, Randy l’ariete appunto.
Laddove la testa serve a ragionare, spesso il cuore ha il sopravvento e quando l’ostinazione subentra è dura mettere a fuoco le priorità di una vita; tanto quanto difficile risulta trovare il proprio posto in un mondo che ti idolatra e ti emargina allo stesso tempo.
Il Wrestler è l’emblema del giro di boa, la rivincita ottenuta il prezzo più alto, tenerezza e rudezza di pari passo ad una realtà che è solamente show business e grida (della folla, dei lottatori, degli speaker). Il reale che entra nelle pieghe della farsa.
La camera a spalla, come scelta registica di Aronofsky, sottolinea il bivio nel quale si trova Randy: riprendere i contatti con l’umanità o proseguire sulla vecchia strada, farsi male dentro o lontano dai ring. Un inno alla mortalità della carne e alla solitudine dell’animo, che apre la mente e permette una commovente riflessione sui valori di famiglia (non solo quella americana di provincia), lealtà e intrattenimento costruito a tavolino. Perché sì, è un valore anche quello.
Il cammino polveroso del lottatore verso il palco assume i connotati di un repertorio musicale, che ci guida nelle periferie dell’anima, una città d’inverno posta ai margini della civiltà, mai così attuale, mai così cupa.
Ritrovarsi dopo una sbandata e rendersi conto che non è possibile lasciarsi tutto alle spalle, ricominciare senza conseguenze. Come un ariete che sfonda la porta della propria coscienza e muro dopo muro si ritrova punto e a capo, al quel luogo primordiale che è anche il suo unico habitat, nonché rifugio sicuro, in mezzo alle urla, lontano dalla sofferenza.
di Simone Bracci