4FOUR HA INTERVISTATO L’ACCLAMATO REGISTA DI STATE OF PLAY
Abbiamo visto State of Play e ci ha convinto. Per aver preso una serie TV di successo e allo stesso tempo essersene discostata approfondendo tematiche quantomai attuali in America, come il giornalismo e la privatizzazione del settore militare e dell’intelligence.
Abbiamo incontrato il regista, Kevin MacDonald.
Con la salita al potere di Barack Obama, rispetto a quelle che sono le tematiche del film, si sta muovendo qualcosa in America?
Quando 18 mesi fa, abbiamo scritto il film, sapevamo che l’amministrazione americana sarebbe cambiata e sarebbero arrivati i democratici. La storia ha senso proprio per questo, perché affronta tematiche in corso come la crisi del giornalismo a livello mondiale e la privatizzazione nel settore militare e dell’intelligence, sempre più preoccupante. Ruoli che prima erano assegnati per senso dell’onore e della patria, adesso rispondono al dio denaro. Speriamo che l’avvento di Obama possa andare contro questa tendenza.
Su un’intervista che ha rilasciato a Variety, afferma che i contrasti nati con Brad Pitt siano dovuti al desiderio di quest ultimo di fare un film diverso. E’ vero?
Non sapevo di avere contrasti con Brad Pitt! A parte la battuta, sì lui avrebbe voluto fare un film molto più vicino alla serie TV, ma questo era impossibile, sintetizzare ciò che accade in sei ore in un lungometraggio di 120 minuti circa…così abbiamo deciso di prendere una direzione diversa rispetto alla serie, approfondendo i vari personaggi.
Il ruolo degli sceneggiatori nella realizzazione del film? alcuni tra quelli citati, si sono dati alla regia…
Non saprei, so solo che la redazione della sceneggiatura è stata una vera odissea.
Ho iniziato a lavorare alla prima stesura con Matthew Michael Carnahan. Lui ha cercato di modificare la sceneggiatura discostandosi dall’impianto della serie TV. Purtroppo ha dovuto interrompere il lavoro per problemi di famiglia.
In America accade poi che gli sceneggiatori siano pagati a settimana, ciò non aiuta. Non abbracciano l’intero progetto come il regista, non se ne sentono coinvolti!
Ad ogni modo, ho continuato con Tony Gilroy, lo sceneggiatore perfetto. Infine con Billy Ray abbiamo cercato di perfezionare le dinamiche giornalistiche all’interno della storia, poi c’è stato lo sciopero degli sceneggiatori ed ho deciso di continuare da solo!
Può spiegarci qual è stato il vostro atteggiamento rispetto alla serie, cosa è cambiato oltre all’evidente traslazione di location dall’Inghilterra all’America?
Sostanzialmente della serie abbiamo mantenuto l’inizio, la presenza dei due assassini, il pianto del politico e il fatto che sia coinvolto negli omicidi.
Per il resto abbiamo cambiato tutto, in particolare il legame affettivo tra il personaggio di Crowe e la moglie del sindaco è stato collocato negli antefatti del film.
La serie è molto ben fatta, intrattiene il suo pubblico, ma non ha un tema forte alla base. Noi ne abbiamo inseriti ben due: i già citati, crisi del giornalismo e privatizzazione del settore militare.
La vera sfida è stata quella di creare con poche idee, un meccanismo ben oliato che permettesse al pubblico di identificarsi con un personaggio di forte integrità morale come quello di Russel Crowe.
Egli non manca di mostrare la sua umanità credendo all’innocenza dell’amico.
Il film sembra rifarsi al cinema anni’70. Quali sono stati i suoi riferimenti cinematografici?
Sì, in effetti mi sono ispirato al giornalismo degli anni’70, il personaggio di Crowe è perfettamente radicato in quella mentalità tanto che al passo coi tempi, pare sgretolarsi sia come immagine del proprio ruolo sociale che proprio concretamente, basta guardare il disordine della sua scrivania, della sua casa o del suo modo di presentarsi.
Sicuramente mi sono lasciato ispirare dalla filmografia di Alan J. Pakula.
Qual è la sua personalissima idea sul futuro del giornalismo?
Bisogna fare una distinzione precisa fra quello che è il futuro del giornalismo e quello della carta stampata, del giornale.
A mio avviso, il futuro sta nel giornalismo telematico, ma al momento il blog non è esattamente equivalente di “buon giornalismo”.
So che il Washington Globe sta pensando di assoldare un numero cospicuo di investigatori per accertarsi delle fonti delle notizie che girano nel web…bisogna che alla base del giornalismo, anche telematico ci sia sempre rigore e veridicità della notizia.
Il suo è il primo film a trattare la differenza tra giornalismo telematico e carta stampata. Crede di poter cambiare l’opinione pubblica?
Il pubblico ancora non percepisce Internet e carta stampata come strumenti di eguale dignità. Sì in molte società, i blog sono i più letti e i giornali stanno morendo, ma alla fine le news di Yahoo non provengono pur sempre dalla carta stampata?
Sicuramente è la pubblicità a percepire per prima le possibilità di visibilità sul web…
Scritto da Alice Ungaro
per 4Four Magazine in partnership con Film4Life!
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