DELUSIONE MASSIMA PER UN FILM DAL GRANDE POTENZIALE SPRECATO
Un pugno. Il colpo rapido e letale Zack Snyder lo infligge subito, i primi minuti di “Sucker Punch” sono un vero gioiello, un piccolo corto nel film che delizia il palato e pone il regista ai massimi vertici del gotha hollywoodiano. La pellicola in questione però dura ulteriori 100 minuti, nei quali il delirio di onnipotenza visiva diventa quasi intollerabile, persi nel bombardamento di immagini e universi sovrapposti, un inno filosofico ed esistenzialista (in cui Snyder aveva già sconfinato con “Watchmen”) che pone nell’immaginario da fumetto la Realtà alternativa da cui rifuggire. Dalla violenza e dai soprusi della quotidianità, dalle sofferenze che il corpo patisce e a cui il senno cerca rimedio.
L’anonima Baby Doll è la protagonista, una ragazza rinchiusa in manicomio con la forza dal patrigno, che comincia un viaggio di astrazione mentale che la porterà a ribellarsi per cercare una via di fuga immaginaria, non potendo ottenerla con la sola forza fisica, a causa dei vigenti canoni della fisica. Snyder vuole indagare la psiche con paletta e secchiello, affidando le sorti dell’intero film ad una sceneggiatura insignificante e ad una recitazione altrettanto scarsa, da format di MTV.
Vorrebbe puntare in alto, verso il sole dell’intelletto, volando con ali e cineprese di cera.
La storia è un mastodontico polpettone pretenzioso, dove la sopravvivenza, tra un ballo e l’altro (escamotage narrativo di basso livello), è determinata dalla battaglia interiore per affrontare il male quotidiano: messaggio legittimissimo, risultato confuso e infelice. Lo scenario della guerra mondiale, stacco, il pianeta fantasy dei draghi volanti, stacco, il treno degli zombie, stacco, il manicomio. Ci sono tutti gli ingredienti per farsi la lecita domanda, se il calderone grigio e selvaggio apporti dei benefici ad un’opera che nel suo complesso regala momenti di alto cinema, alternati con pesanti cadute a vuoto, come se l’intero impianto sceneggiativo si sorreggesse su grandi tavole d’argilla iconografica.
Simboli, suoni e colori sorprendono e stancano, ammaliano e lasciano indifferenti. Alla fine l’inquietante domanda è se la pazzia come focus centrale non abbia dato alla testa al buon Zack. Impegnato a ricostruire mondi lontani, rapito da omaggi cinefili a raffica e affascinato da fusioni di inquadrature digitali che fanno dimenticare tutto il resto, un contraddittorio, dunque, dall’eccezionale titolo di testa alla base di canzoni mixate. Sfondo pitturato di un film semplicemente deludente. Il colpo è un pugno mancato, sferzato a vuoto con piena forza, tra potenziale inespresso e overdose di citazioni.