We need to talk about kevin: recensione

GRANDE INTERPRETAZIONE DI TILDA SWINTON PER UN FILM CHE LASCIA IL SEGNO

Probabilmente il nome di Lynne Ramsay a molti non dice nulla. Eppure si tratta di una regista di talento che qualche anno fa fece discutere nei festival con il suo “Ratcatcher”, uscito timidamente anche in Italia. Ora ad alcuni mesi di distanza dal suo passaggio a Cannes, esce nelle sale francesi e inglesi questo suo nuovo progetto che farà discutere i più per le sue tematiche particolarmente difficili.

Il film della Ramsay tratta di una maternità difficile, quella di Eva, una donna in carriera con la passione per i viaggi che si vede costretta a casa a crescere il piccolo Kevin, che fin dalla culla presenta già alcuni problemi. Ogni volta che la madre lo prende in braccio, lo porta a passeggio o cerca di dargli da mangiare, questo piange e urla, mentre con il padre non fa un verso. Gli anni passano e il muro tra madre e figlio è sempre presente, anzi sembra essere più alto, mentre il rapporto col padre sembra pacifico e idilliaco. Eva non sa come comportarsi, ma alla nascita della sorella, Kevin sembra aver superato il distacco con la madre e trova uno stimolo ulteriore nel tiro con l’arco: sembra quasi un ragazzo normale. Ma con l’adolescenza le cose sono destinate a peggiorare, fino a sfociare in tragedia.

Assistere a un film come questo è veramente un’esperienza… complicata. Fin dall’inizio onirico in cui la protagonista si muove tra un mucchio di gente macchiata di rosso che si tira pomodori addosso proviamo un certo senso di disagio; più in generale nei primi 5 minuti infatti sembra di trovarsi a un interessante connubio di video-arte e cinema d’autore dove sostanzialmente non si capisce nulla, ma l’attenzione dello spettatore è sempre presente. La realizzatrice per di più ci tiene sulle spine presentandoci soltanto pochi istanti di ciò che vedremo nell’amaro finale. Ma la Ramsay non si limita a emulare il miglior Inarritu, giocando con i piani temporali e realizzando un complicato melodramma. Dopo quei primi momenti infatti la pellicola prosegue per un’altra strada presentandoci una storia familiare come ne abbiamo viste poche sul grande schermo: è possibile provare un sottile senso di angoscia nell’assistere al rapporto tra madre e figlio che più volte rischia di sfociare in un conflitto.  In tutto questo ci si mette il personaggio del padre (John C. Reilly, reduce dall’ottimo “Carnage”) brillante e simpatico, ma incapace di vedere l’incomprensione tra sua moglie e figlio.

La Swinton in questo ruolo particolarmente difficile è straordinaria: le aiuta molto avere una faccia caratteristica, quel viso alieno che tra i vari conquistò Derek Jarman, ma in più scene è capace di tenere su di sé scene particolarmente difficili a livello emotivo con grandissima professionalità e le scene in cui si confronta col figlio adolescente bucano lo schermo. Merito anche di Ezra Miller, che nella metà di film in cui è presente riesce benissimo a tenerle testa.

Impreziosito dalla colonna sonora di Jonny Greenwood, capace di mescolare influenze opposte come i lavori di Ligeti e le musiche cinesi tradizionali, “We need to talk about Kevin” è una visione capace di mettere a disagio lo spettatore, ma è sicuramente uno dei lavori più interessanti visti quest’anno. E infine speriamo che qualche giuria noti il talento di Lynne Ramsay che con questo film si conferma come una delle registe più interessanti in circolazione. 

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