REAL STEEL, UN RACCONTO EPICAMENTE ELEMENTARE CHE FUNZIONA
Il rasoio di Occam offre sempre uno spunto interessante per analizzare una storia. “Real steel” ne è il perfetto esempio, il principio metodologico che sta alla base di uno spunto per raccontare qualcosa di semplice e al contempo stupefacente. Ingredienti base, coraggio, testardaggine, orgoglio infarinati di valori universali puntellati sugli affetti familiari, sulla sfacciataggine buonista e sul riscatto morale.
Padre (squattrinato) e figlio (genialoide) si rivedono dopo 11 anni per la morte della madre e ritrovano un affetto comune amplificato dalla passione per la robot boxe, ovvero gli incontri di pugilato tra automi comandati. Insieme, attraverso la loro creatura Atom arriveranno a sfidare il campione del mondo in carica, in un epico incontro di botte e ferraglia. La filmografia di Stallone ripresa e frullata in salsa futurista, da “Over the top” all’immancabile “Rocky”, ciò che ha reso Sly una stella qui rivive in un credibile guascone Hugh Jackman, che deciderà di allenare il robot, e nel vivace figlio, un ragazzino ruspante che è il vero fulcro narrativo.
Il binomio uomo-macchina ricorda tanti classici del settore, la storia del cinema la racconta da sempre con risultati a morale costruttiva, passando dai momenti in cui il destino si rende artefice dell’incontro, fino all’esaltazione profonda di un’umanità divisa tra passato e futuro. Nel crocevia buonista fatto di scorci paesaggistici e di arene da combattimento, la regia di Shawn Levy accompagna delicatamente una storia scontata dall’inizio alla fine, immediata, coinvolgente, furbetta. “Real steel” piace alla fine per quello, perché riporta sul carrozzone del tempo lo spettatore adulto, colui che da bambino sognava nel sacco di Natale l’ultima automobile telecomandata.
Qui appaiono robot guerrieri e tanta tanta adrenalina: essenziali per far divertire quanto basta e rendersi conto di uscire dal cinema con quel sorriso stampato in volto difficile da spiegare.