A.C.A.B.: recensione film

FAVINO, NIGRO, GIALLINI E SARTORETTI DA POLIZIOTTI A CRIMINALI NELL’ESORDIO DI SOLLIMA

a.c.a.b. locandina filmGENERE: drammatico/poliziesco

DURATA: 112′

DATA DI USCITA: 27 Gennaio 2012

VOTO: 4 su 5

A.C.A.B. è l’acronimo di All Cops Are Bastards, modo dispreggiativo per riferirsi ai celerini. Istituzionalmente parlando, si chiama reparto mobile della Polizia di Stato. Con una parola: poliziotti, impiegati principalmente per la tutela dell’ordine pubblico e per l’intervento nelle zone colpite da eventi calamitosi. Essendo sottoposti a continue violenze e catapultati in situazioni di pericolo incessante, l’unica cosa su cui possono contare è una spalla amica, fraternizzare. E proprio la violenza e la fratellanza sono i temi principali di questo film. Ma quanto può la fratellanza far sopportare la violenza?

Stefano Sollima è alla sua prima prova per il cinema e la affronta egregiamente, senza smentire il grande talento mostrato nella direzione della serie Romanzo Criminale: una regia movimentata la sua, che sa placarsi quando è il momento di lavorare sui volti e sui corpi dei personaggi. Bella la prova fotografica (in pellicola, va detto) di Carnera: acida, per nulla edulcorata, realistica e complessa allo stesso tempo. Montaggio, fotografia, regia e uso della musica seguono gli stessi moduli della pellicola e della serie tv: massimo esempio della nuova estetica del cinema italiano contemporaneo di qualità.

A.C.A.B. è un’arma a doppio taglio: da una parte, specchietto per allodole quindicenni neofasciste dal fomento facile, dall’altra, amara costatazione dell’esperienza di guerriglia quotidiana che i poliziotti del servizio d’ordine pubblico vivono. Un film dalle mille implicazioni e dai mille spunti di riflessione: tocca un ventaglio davvero ampio di tematiche, le sfiora per poi approfondire la condizione dei celerini. Un punto di vista interno ma non esclusivamente positivo: va sottolineata la continua smentita della posizione proposta, ogni elemento rivela il suo contrario. Peccato per sporadici attimi di retorica spicciola di un cameratismo dal tono cavalleresco.

Ottimo il lavoro di Sollima (e troupe) nel raccontare una realtà estremamente forte in modo valido: si percepisce una tensione continua, un senso di malessere e di adrenalinica pura; lo spettatore non può tirare il fiato fino alla fine. Ed è probabilmente la sequenza finale la più carica di negatività, meravigliosamente trasmessa. Difficile dire quale sarà l’effetto sul pubblico, delle istituzioni e dei chiamati in causa, che ancora non hanno avuto una reazione ufficiale.

Chiosa Romana: le autrici si sentono coinvolte umanamente, linguisticamente, interiormente, tanto che è difficile riprendere le redini della critica. L’arte cinematografica è sicuramente la più adatta per smuovere testa e cuore, poiché è  la sola capace di comunicare con “il linguaggio della realtà”, come disse Pasolini. Solitamente non accade, ma questa volta la recensione è da prendere con le pinze: una sola visione non basta. Ce ne vorrebbe una seconda, una terza, una quarta, una centesima per far scemare l’emozione pura e rientrare pienamente nel ruolo del critico.

Anche a cura di Fabiola Fortuna

 

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