Detachment: recensione film

UNO SGUARDO SPIETATO SUL MONDO DEI TEENAGER, UN GRANDE ADRIEN BRODY

Se andiamo ad analizzare la filmografia di Adrien Brody, da sempre abituato a personaggi fragili e intensi, subito dopo la vittoria dell’Oscar per “Il Pianista” non è andata molto bene per l’attore dal naso aquilino: ci sono stati comunque momenti memorabili come nel caso di “The Village” dove interpretava il pazzo del villaggio e il meraviglioso “Il Treno per il Darjeeling” dove faceva a gara a chi era più bizzarro con Owen Wilson e Jason Schwartzman, come da tradizione ‘wesandersoniana’.  Con il primo ha condiviso inoltre una delle scene più divertenti dell’alleniano “Midnight in Paris” (Io vedo… un rinoceronte).

Meglio tacere invece sulla sua incursione in terra italiana, dove sotto l’egida di Dario Argento ha realizzato probabilmente il film peggiore della sua carriera. Ora negli Stati Uniti e in Francia esce in contemporanea questo nuovo film “Detachment” che consacra di nuovo l’abilità di Brody come attore coraggioso alla ricerca di ruoli inusuali. Non lo si vedeva così in forma da tempo infatti.

Henry Barth è un insegnante che viene trasferito in una delle scuole più difficili della sua cittadina. Aggressioni, insulti all’autorità, uccisioni di animali e un generale menefreghismo nei confronti dell’educazione sono all’ordine del giorno. I professori non sanno più che fare di fronte a questa ‘piaga generazionale’. Barth sembra avere la soluzione, offrendo agli studenti la possibilità di non venire a scuola se non vogliono, mettendoli di fronte a una presa di responsabilità. Ma sarà comunque difficile per lui mediare tra questa difficile situazione e il tentativo di riportare sulla retta via una ragazza che ha interrotto gli studi prematuramente per darsi alla prostituzione.

Se questa storia fosse stata affidata a un regista incapace di dialogare con gli adolescenti, ne sarebbe venuto un film stereotipato e banale. Ma qui fortunatamente dietro la macchina da presa abbiamo un certo Tony Kaye, autore di quell’ “American History X” che riusciva a tirare il meglio non solo da Edward Norton, ma anche dal giovane Edward Furlong, il John Connor di “Terminator 2”, all’epoca non ancora caduto nella tossicodipendenza.

Qui si cambia registro, ma sempre di crescite turbolenti si parla. Ragazzi incapaci di esprimere in maniera normale i propri sentimenti e che scatenano nella violenza i propri impulsi. Ragazzi che non riescono a comunicare, che non riescono più ad avere curiosità… ragazzi che vivono in un profondo ‘distacco’ (per l’appunto ‘detachment’) emozionale che impedisce loro una vita sociale normale. Per la rappresentazione del loro stato confusionale il regista si affida a bellissime animazioni su lavagna che rendono le immagini sporche che stiamo vedendo, qualcosa di poetico. L’eroe della storia, il professor Barthes, pur evitando di salire sulle cattedre e spingere i ragazzi a catturare l’attimo come qualcuno di nostra conoscenza, cerca la comunicazione con questi studenti confusi, cresciuti a pane e consumo e che si trovano vicini a compiere una scelta seria: quella di cosa fare finiti gli studi.

Giusto una ragazza obesa sembra trovare un’espressione creativa nella fotografia: sarebbe la salvezza, se non fosse che la famiglia trova tutto questo una ‘inutile perdita di tempo’ o un ‘capriccio senza futuro’.  Il professore vorrebbe trovare il tempo di salvare tutti questi studenti, ma il suo stato di confusione –per un passato turbolento che scopriremo solo alla fine- gli impedirà di fare le cose come vorrebbe.

Kaye realizza un film potente, che forse a tratti pecca in eccessi di melò e in più punti sembra stare dalla parte degli insegnanti, comunicandoci l’idea che forse sono proprio loro gli eroi veri degli USA. Quanto al cast, è un peccato che a miti della televisione come Bryan Cranston (“Breaking Bad”) e William Petersen (“C.S.I.”) vengano date parti così poco consistenti, ma dall’altro lato abbiamo James Caan, Lucy Liu, Marcia Gay Harden e molti altri assolutamente credibili nel ruolo di insegnanti prossimi a perdere la speranza. Adrien Brody si rivela ancora una volta un attore straordinario e nel finale dove cita “La caduta della casa degli Usher” è assolutamente da brividi: veramente un ‘attorone’ e noi lo vorremo vedere più spesso così. 

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