FINALMENTE IN ITALIA, L’OPERA PRIMA DEL REGISTA DI SHAME
DURATA: 96′
DATA DI USCITA: 27 Aprile 2013
VOTO: 4,5 su 5
Bobby Sands. Questo nome ai più non dirà niente, ma negli anni ’80 si sentì molto parlare di lui nell’ambito delle lotte per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord. Il regista Steve McQueen punta la sua macchina da presa nel blocco H della prigione di Long Kesh, luogo nel quale venivano rinchiusi i pericolosi terroristi dell’IRA. Con quest’opera il director riconferma le talentuose doti mostrate in Shame, anche se cronologicamente Hunger è stato realizzato prima. Stiamo parlando infatti della sua opera prima da regista di lungometraggi, basata su fatti reali quanto storici.
Protagonista è Sands (interpretato da un eccezionale Michael Fassbender), leader del movimento di liberazione all’interno del carcere. Le riprese quasi documentaristiche catapultano lo spettatore all’interno della fortezza e gli mostrano dove e come vivevano questi prigionieri: “Tra sangue e merda“. Le proteste portate avanti per le strade si incrociano con quelle all’interno del penitenziario: qui, in un’escalation di violenza, prima viene attuata la blank protest, a cui segue la no wash protest, a cui mette un punto lo sciopero della fame. E se le reazioni del governo inglese non si fanno aspettare, l’unica cosa che manca è il dialogo. In un mondo che in teoria conosceva già i diritti dell’uomo e la non violenza come forma di protesta, serve la morte di 9 prigionieri per garantire un trattamento dignitoso dei carcerati. Il primo di questi 9 è proprio Bobby Sands.
Non è certo la prima volta che un regista porta sul grande schermo una parte di storia del paese dal quale proviene. Ma la particolarità di questo film è proprio nel modo in cui ha deciso di rappresentare la vicenda. Nelle scene infatti, manca quasi del tutto la sceneggiatura. Scelta azzeccata, in quanto a volte i silenzi dicono molto più delle parole. Esattamente come le foto: non serve una conversazione per far rivivere un momento, bastano le sensazioni che ti suscita l’immagine. Insieme ai silenzi è presente però anche molto rumore. Le urla dei prigionieri quando vengono picchiati, il frastuono dei mobili delle celle schiantati contro il muro per protesta, i manganelli sbattuti contro gli scudi dei poliziotti chiamati per sedare le rivolte.
Un dialogo sostenuto è comunque presente nel film ed è il suo punto forte. Forte come le idee e i pensieri che ne emergono. È una conversazione tra Sands e il prete, chiamato dal leader per informarlo dell’ultimo sciopero della fame, quello che deve essere portato a termine, per portare il termine alla situazione civile e politica. “La libertà significa tutto per me.. Togliermi la vita non è solo l’unica cosa che posso fare, è anche la cosa giusta da fare“. Queste le parole che pronuncia Sands di fronte al prete che non trova nessun’altra buona motivazione per persuaderlo. La macchina da presa si focalizza sui visi dei due conversatori: dai primi piani sugli occhi, sul fumo della sigaretta, sui gesti dei due emerge l’esperienza nel campo della fotografia del movie maker. Ogni singola inquadratura è pensata, nulla è lasciato al caso o aggiunto per allungare il brodo. E’ un lavoro impeccabile.
È la parte mancante in The Iron Lady, il film che ripercorreva la carriera e le scelte politiche di Margaret Thatcher. Nella pellicola di Phyllida Lloyd veniva infatti fuori la temperanza e la forza del primo ministro inglese, anche nel prendere decisioni impopolari. In Hunger, viene fuori invece la ricaduta di tali scelte. Due visioni incompatibili insomma, anche se nascono da uno stesso obiettivo: rendere migliore il paese in cui si vive.
È sicuramente uno dei film più duri che abbia mai visto, per le immagini e per le sensazioni che evocano. Il climax di feroce intensità colpisce lo spettatore e gli provoca dolore, molto più di un film come Diaz – Don’t clean up this blood. Non serve dire altro. Allo stesso tempo però è anche un film tanto suggestivo quanto coinvolgente, anche perché ha tematiche attuali. Da vedere, a stomaco vuoto mi raccomando.