DICHIARAZIONE D’AMORE CONFUSA, CREATIVA, RIDONDANTE E PIATTA DI ALLEN PER ROMA
Se c’è una cosa che il buon cinema trasmette è la finzione intesa come reale verità e viceversa. Woody Allen ha creato il suo mito sapendo mescolare il mondo tangibile e quello narrativo in maniera sapiente e con un eleganza quasi jazz, affrontando la commedia sempre con quello spirito delicato da profondo conoscitore del cinema internazionale. Stavolta questo sguardo, un po’opaco, è toccato a “To Rome with Love”, a Roma con amore, ma più che amore è la passione il perno centrale della storia barocca e disincantata che il regista di NY porta sullo schermo.
Piccoli episodi talvolta interconnessi, livellati però in maniera differente a seconda dei protagonisti, che, manco a farlo apposta, giocano un derby senza storia nell’espressione dei differenti caratteristi in gioco. La partita tra Italia capeggiata da Alessandro Tiberi e Stati Uniti finisce 2 a 0 per loro e palla al centro. Il racconto con Woody protagonista (al ritorno in scena dopo 6 anni e magistralmente doppiato da Leo Gullotta) e il terzetto composto da Alec Baldwin. Jesse Eisenberg, Ellen Page risultano essere decisamente meglio scritti o con esattezza, più calzanti e naturali nel loro ruolo di stranieri in vacanza o di passaggio nella città eterna, che stonano con il cast di Mameli, talmente (e pesantemente) macchiettistico che viene da storcere il naso ogni qualvolta la battuta a suon di morale viene pronunciata dall’attore di turno.
Certo, poi c’è Roberto Benigni, solito istrione, divertente ma troppo catalogato in un ruolo dalle briglie corte che ne dimezzano il potenziale e lo irradiano di retorica. Per carità, ci meritiamo tutto ciò, è la visione odierna del mondo nei nostri confronti, ma ridurre gli italiani (non l’Italia) ad un continuo siparietto amoroso rimanda con stanchezza alla commedia buffa eduardiana che da noi è morta e sepolta. Nel film si passa da momenti di brillantezza acuta, a momenti di totale piattezza recitativa e sceneggiativa, con situazioni che, se deliziosamente surreali in “Midnight in Paris”, da noi si trasformano in attimi di totale irrealtà. Aggiungiamoci come condimento un product placement invadente è la frittata è pronta.
Indubbiamente il clima disteso e alcune trovate (“doccia canora”) sono da gran direttore d’orchestra, ma il pedale di Woody è troppo spinto sull’acceleratore del qualunquismo. Sul rosso passione, sul sesso e sull’adulterio, che assumono i connotati di parole obsolete dinanzi alle grazie della Cruz, per citarne una, e portano l’intera struttura del racconto a non prender mai quota. Via via lo sguardo sui personaggi si fa distratto, li cominciamo a seguire quasi come passanti casuali al centro della strada, persone anonime in una torre di Babele romantica e al contempo caotica.
C’era una volta una fiaba per ragazzi, c’era una volta quel sentimentalismo spicciolo tra dame e cavalieri, c’era una volta una storia in cui la finzione emozionava fino all’ultima pagina. Poi il racconto terminava.