Cosmopolis: recensione film

PATTINSON, CRONENBERG, DE LILLO, COSMOPOLIS, NOIA PURA E SEMPLICE

Questa volta la mutazione della carne è sintetizzata dalle contorsioni della schiena contro la poltrona, quel malessere fisico, altro che sociale, dovuta ad un tremendo attacco di noia. Se conoscete il nome di Don De Lillo, romanziere di successo, saprete quanto possa essere difficile un suo adattamento cinematografico. Se non lo conoscete, ora saprete che “Cosmopolis” di David Cronenberg è un film macchinoso e pedante.

Pedante nella sua ossessiva e ricorrente ricerca del minimalismo estetico che lungo il percorso (in un ambiente ovattato) diventa purificazione dell’anima, quasi un’espiazione a cui si è costretti. Perché? Perché decidere di far soffrire così lo spettatore, privandolo di ritmo e stordendolo con dialoghi pseudo-filosofici, che su carta possono anche funzionare, ma sullo schermo hanno l’effetto di una mazzata sulle falangi?

David, lontanissimo dai suoi fasti, diventa un narratore che si ispira al peggior Gus Van Sant, sorretto da dialoghi di un’irrealtà cosmica, velati a malapena da un’ironia di fondo che salva la pellicola dal guado totale. Certo, poi mettere insieme Robert Pattinson, al cui confronto Clint Eastwood attore sembra Marlon Brando, insieme ad alcuni calibro Giamatti è una crudeltà gratuita, idem ingaggiarne altri completamente fuori parte o completamente fuori forma (Mathieu Amalric, Samantha Morton).

Un giovane uomo d’affari, Eric Packer, rampollo della finanza, decide in una giornata qualunque di farsi aggiustare il taglio dal suo barbiere di fiducia, il cui negozio è all’altro capo di New York. Quel che sembra un percorso breve diventerà una lunga giornata di incontri, riflessione e vagonate di non-sense, perfette nello stile letterario, completamente fuori sincrono nella sua versione filmica. Regia e sceneggiatura sembrano seguire due filoni separati, da una parte un gusto retrò abbinato ad un ipotesi fantascientifica quanto strampalata, l’altra agendo erroneamente sul binario dell’espressività emotiva, non certo il punto di forza per il giovane Cullen.

Microcosmi che si scontrano a distanza ravvicinata, incertezza dell’esistenza, malessere in vita e tanta apatia nei confronti di un’umanità devastata dal distacco, implosa dalla sua stessa perfidia. Questo vorrebbe trasmetterci Cronenberg, questo avremmo voluto capire tra le righe degli interminabili monologhi a duetto, questo avremmo voluto ascoltare dai protagonisti ospiti, sequenza dopo sequenza, di una limousine quale espressione di controllo maniacale e ossessione del sesso libero. Questo avremmo voluto tanto vedere, non patire il mal di schiena. 

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