Special forces – liberate l’ostaggio: recensione

WESTERN BELLICO, PICCHIADURO CONTEMPORANEO: UN POLPETTONE DA FOTOROMANZO CHE CADE NEL RIDICOLO

Western come quelli di John Ford non se ne fanno più, l’alba dei tempi di un genere che pensavamo intramontabile è definitivamente andata in pensione. Nemmeno i film bellici sono più di moda al giorno d’oggi, perciò se questi due stili vengono interconnessi certamente non costituiscono grande attrattiva nel periodo storico attuale, in cui solo i fumetti contendono al dramedy lo scettro degli incassi.

Se però la Francia vuole strafare scimmiottando i colleghi americani, ecco che l’action si fonde alla guerra, a sua volta connessa al dramma sociale, in un racconto dai toni propagandistici per cui niente e nessuno potrà salvare il progetto dal beccarsi un quattro in pagella. Nemmeno una squadra di forze speciali come il titolo vuole, appunto: “Special Forces – Liberate l’ostaggio”.

Parliamo di un film ad ampio budget che annovera un cast eccellente compreso un cattivissimo Raz Degan, militante e pakistano pazzo, che rapisce una giornalista francese e poi la insegue tra i monti, dando la caccia alla squadra di recupero mandata a salvarla. Tutto, ma proprio tutto, assume toni grotteschi nella pellicola, perché quando la citazione autoironica non è dichiarata si cade nella menzogna, a partire dai toni finti paternalisti del sestetto in missione.

Djimou Honsou, Benoit Magimel e una tosta Diane Kruger sono ben diretti da Stéphane Rybojad, ma capitano in una storia troppo più grande di loro, con psicologie complesse e toni pacchiani nella loro stesura sceneggiativa. Emozioni a tratti, eroismi a grappoli, sociopolitica da Risiko ed improbabili scalate montane, spernacchiano involontariamente un film dai toni forti, partito con una sapiente idea a suon di rock. Raccontare una macchinosa liberazione di una reporter (anche il dibattito tra stampa e soccorsi è appena accennato) ed enfatizzare le azioni eroiche da parte di un commando di soldati “dal cuore buono”.

Una di quelle ciambelle, insomma, che raramente riescono col buco alla macchina tritatutto di Hollywood, figuriamoci se realizzata da quel popolo di artisti e illuminati che sono i nostri cugini d’oltralpe. Il risultato è infatti un melodrammatico copione in cui machismo e buone intenzioni combattono a fucilate il male che si annida nel mondo. Molto spesso localizzato nei territori brulli dell’Asia centrale, alla faccia di John Wayne. 

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