UNA STORIA AMERICANA DI SOLITUDINE E DISTANZIAMENTO, EMOZIONANTE E TOCCANTE
Il regista inglese Tony Kaye esordisce nel mondo della cinematografia “ufficiale” nel ’98 con American History X che, come indica chiaramente il titolo, racconta un pezzo d’America, di cultura statunitense per la precisione, e lo fa con un approccio tecnico di altissima qualità e un contenuto profondo e complesso. Anche Detachment ha qualcosa (anzi, molte cose) da raccontare sugli USA: il paese del futuro, del sogno e della felicità, che si sgretola più velocemente di quanto si possa immaginare.
Adrien Brody è Henry Barthes, un supplente di letteratura cui viene assegnato un incarico in un istituto pubblico in periferia pieno di ragazzi “difficili”. È un bravo insegnante, attento, empatico, dal polso fermo ma anche comprensivo. Fuori da scuola però, è ermetico, «impenetrabile» come lo definisce il nonno. Henry vuole mantenere le distanze da tutti e da tutto ma non può impedire agli altri di non avvicinarsi: Erica, una prostituta adolescente che accoglie in casa sua, e Meredith, una studentessa infelice, gli impediscono (almeno inizialmente) il suo totale distacco dal mondo.
Fare i conti con Detachment non è semplice. È come farli con la propria vita, con le proprie insoddisfazioni e i propri irrisolti. Kaye costruisce un racconto complesso, irregolare, per niente classico (dunque lontanissimo dalla tradizione cinematografica statunitense), che sembra un albero con mille rami tutti visibili e tutti presenti nello stesso momento. Dobbiamo essere attenti nel seguire il filo di questo film il cui andamento non è lineare né logico. Una logica c’è ovviamente, molto sofisticata, anche se non di immediata comprensione.
Le tecniche e le scelte estetiche che il regista adotta per raccontare la storia di Henry sono singolari; Tony Kaye ha realizzato numerosi documentari e i risultati della sua esperienza sono tutti presenti in questa ultima pellicola che dirige (e fotografa anche) interamente con una macchina a mano il cui obbiettivo si avvicina e si allontana continuamente dai volti dei personaggi. Molto documentaristico ma realizzato in modo sofisticato, niente infatti è lasciato al caso. Le uniche sequenze che presentano un’estetica diversa da questa sono dei brevi brani in cui il protagonista parla alla macchina da presa in un luogo che non vediamo, perché l’inquadratura sul suo volto è troppo stretta.
Duro da mandare giù, sofferente e sofferto, Detachment è un film innovativo nella forma ed emozionante nel contenuto. Le emozioni che scatena sono forti, colpi diretti all’animo di chi guarda. Spesso, non sono positive. Kaye spinge alla riflessione come pochissimi artisti, in tutti i campi, riescono a fare ma spinge anche verso un baratro di negatività e angoscia davvero raro da trovare in un film degli anni 2000.