OVVERO POCHI SANNO RACCONTARE L’INFANZIA COME WES ANDERSON
Ormai, dopo quasi una decina di film, Wes Anderson ha sviluppato una propria marca stilistica che ha consacrato il regista tra i personaggi più influenti nel cinema statunitense dagli anni ’00 a oggi, tanto da diventare oggetto di parodia in vari filmati su youtube (come il fantomatico “Wes Anderson’s Spiderman”) e ispirazione per giovani menti che cercano in festival come il Sundance il loro trampolino di lancio. Tra i segni più caratteristici del suo cinema troviamo: un uso riflessivo e al tempo stesso epico del ‘ralenti’, movimenti di camera che esplorano le stanze dei protagonisti, un uso creativo di musica vintage (dai Kinks agli Who, passando per i Clash), tutto questo messo in scena con la stessa famiglia di attori che comprende tra i vari Murray, Schwartzman e i fratelli Wilson.
Sempre volto a omaggiare un certo cinema francese, stavolta Anderson sembra quasi rifarsi a uno dei classici meno conosciuti di François Truffaut, “Gli anni in tasca”, con cui condivide soprattutto una sensibilità fuori dal comune nel raccontare i disagi della crescita, quando si è piccoli, in difficoltà e talvolta incapaci di creare un legame comunicativo col mondo dei grandi.
In quest’avventura dal gusto retrò, i protagonisti sono Sam e Suzy, due bambini fuori dal mondo che ragionano come degli esistenzialisti d’altri tempi, risultando molto più intelligenti degli adulti che li circondano. Conosciutisi dietro le quinte di una messinscena dell’Arca di Noé, s’innamorano, si scrivono lettere di nascosto e decidono di scappare per rifugiarsi nella natura sfruttando l’astuzia da boy scout di Sam, orfano ritenuto ‘emotivamente instabile’ dai suoi coetanei. La loro fuga sarà, oltre a un modo per conoscersi meglio, un’occasione per scoprire le debolezze e le fragilità degli adulti che li cercano, ai loro occhi sempre più difficili da capire.
Ancora una volta non ci sono eroi nei film di Anderson, solo personaggi che attraverso vari ostacoli riescono a trovare il loro posto nel mondo, accettando il semplice fatto di essere ‘diversi’. Inizialmente strambi e irremovibili come pezzi di legno, lentamente tutti i personaggi di “Moonrise Kingdom” si scioglieranno fino a mostrare la loro vera personalità e le proprie emozioni. Anche lo stesso film nella struttura si presenta in questo modo: dopo una prima parte legnosa in cui vengono presentati gli stilemi del cinema di Anderson senza particolare fantasia, l’avventura diventa poco a poco sempre più trascinante, grazie soprattutto alle interpretazioni dei due giovani attori, che non sfigurano affatto accanto a gente come i già citati Murray e Schwartzman e infine le ‘new entry’ Bruce Willis (che da tempo non vedevamo così ispirato, con quelle sue occhiaie malinconiche), Edward Norton, Tilda Swinton e Frances McDormand.
Nella storia ambientata perlopiù nei campi scout si riescono anche a trovare paralleli con l’universo dei “Peanuts” dove trovare bambini con problemi esistenziali e difficoltà a creare legami era roba di tutti i giorni. Ma Anderson decide anche di rompere con quella tradizione di fumetti infantili, spingendo l’acceleratore sulla storia d’amore e facendo uccidere durante una delle scene più concitate il cane degli scout che non a caso si chiama Snoopy.
In fin dei conti anche se non si tratta del film più ispirato del regista de “I Tenembaun”, siamo di fronte a un’avventura insolita che farà storcere il naso come sempre ai detrattori di certo cinema indie, ma farà innamorare ancora i più sensibili, folli di questo cinema, che sa essere fuori dal mondo, per poi andarci dentro, dritto al suo cuore.