The way back: recensione film

L’APPASSIONANTE VIAGGIO COMPIUTO DA COLIN FARRELL & CO: UN’OPERA DI GRAN VALORE

Il viaggio come scoperta di sé: un tema che ha segnato la storia della letteratura, da Omero in poi. Ma in pochi penserebbero che grazie al viaggio si puo’ giungere al perdono o alla redenzione dalle proprie colpe. Oppure si potrebbe intraprendere un percorso lunghissimo per poi arrivare al punto di partenza, per perdonare chi ci aveva per un attimo delusi. Tutte tematiche di un certo spessore trattate da Peter Weir nel suo The Way Back che esce a oltre a un anno di distanza dall’uscita statunitense.

La pellicola è un affresco storico di grande respiro sui gulag russi e su un gruppo di prigionieri politici che cerca di scappare attraverso la Siberia gelata per arrivare là dove nessuno si sarebbe aspettato di andare. Detta così la storia potrebbe sembrare l’ennesima variazione sul tema de La grande fuga e compagnia. Ma non è tanto la fuga il vero tema del film –non a caso i carcerai russi si vedono per pochissimo-, ma la continua ricerca di un luogo ospitale, lontano dalle angherie della guerra e che rappresenti un po’ l’utopica speranza. Potrebbe anche esistere questo luogo, ma i protagonisti non arriveranno alla soddisfazione, fino a quando non reincontreranno le persone da loro amate in passato, lontante e per alcuni irraggiungibili.

Peter Weir non ha perso il tocco di una volta ed emoziona grazie alla lucidità della messinscena e a una notevole direzione degli attori. Talvolta si lascia un po’ prendere la mano e offre alcune scelte estetiche poco felici, come l’utilizzo di una musica dai toni quasi rock durante la rocambolesca scena della fuga. E anche la rappresentazione della difficoltà dei protagonisti di fronte alle angherie dell’inverno all’inizio sembra poca roba rispetto a quanto visto nello sconvolgente (e ancora inedito) The Grey. Ma poi la pellicola si solleva e l’empatia con i protagonisti, tra cui brilla Ed Harris rude e tenero come solo lui e il buon Clint sanno essere, sale al massimo grado.

Con questo film Weir non vuole cambiare la storia del cinema, né cambiare la nostra percezione della Storia. Vuole offrirci solo un sano spettacolo, girando attorno a certi clichè del cinema statunitense di una volta e talvolta sorprenderci dandoci dei brividi nei momenti più inaspettati. Perché questo è un Weir minore rispetto a “Un anno vissuto pericolosamente”, “Picnic a Hanging Rock” o “Truman Show”. Ma un Weir minore equivale a mille migliori opere di tanti presunti registi ‘impegnati’. Ben tornato Peter.

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