IL MUSICISTA CI RACCONTA LA SUA VISIONE DELLA MUSICA PER FILM
Stefano Lentini non fa troppi complimenti quando si tratta di scrivere colonne sonore: ha infatti musicato cortometraggi (La nuova armata Brancaleone di Mario Monicelli), film per la televisione (Il sorteggio, Bakhita), documentari (Sfiorando il muro, Einer von uns, Skin deep), film d’animazione (Jules Verne) e, ovviamente, film narrativi (Waves, Shooting Silvio). Senza contare la collaborazione con Rai Tre per le musiche del programma Ballarò. È un autore cui piace entrare in contatto con l’opera che dovrà animare, con melodie sempre originali e che si adattano al sentimento del regista. Inoltre, il suo prossimo progetto sarà in teatro, un mondo diverso da quello dello schermo (grande o piccolo che sia); una nuova sfida di cui l’artista ci parlerà nelle righe che seguono, con entusiasmo e curiosità, elementi imprescindibili per realizzare un ottimo lavoro creativo.
F4L: Iniziamo con una domanda indirizzata sia al Lentini professionista che all’ascoltatore: qual è stata la tua formazione musicale? Quali sono i tuoi modelli? E come possiamo ritrovarli nelle tue composizioni?
SL: Generalmente diamo alla parola musica un’unica accezione dentro la quale mettiamo tutto: l’esperienza, il suonare, l’ascolto, lo studio, il concerto, l’orchestrazione, la direzione, lo studio di registrazione. Forse si tratta invece di una parola che racchiude infinite voci, diverse, talvolta opposte. La musica può essere libertà e restrizione, onestà e menzogna. Dirti oggi qual è la mia formazione è un’affermazione approssimativa perché mi sento ancora in fase di formazione. I miei inizi musicali sono stati mossi da semplici esperienze di ascolto e stupore (Johannes Brahms e Alan Parsons Project sono i ricordi più lontani nel tempo), poi sono seguiti tanti periodi con tante “formazioni” diverse, ciascuno caratterizzato da una durata maggiore o minore ma la cui influenza sul mio modo di comporre non posso quantificare io stesso. C’è stato l’influsso del De Andrè e del De Gregori degli anni ’70, la musica antica (dal Medioevo al Barocco), l’heavy metal, il progressive, Peter Gabriel, il folk di John Renbourn, la musica klezmer, l’ottocento romantico (Chopin è per me uno dei maestri più grandi). E poi il jazz della swing era, il Mozart del Requiem, il Pergolesi dello Stabat Mater, Alicia Keys, la musica cameristica di Antony & The Johnsons, l’indie dei The Dears, Strokes, Tunng, Bon Iver, Regina Spektor, MGMT. Oggi il mio modello è l’indipendenza espressiva, lo ritrovo in tutti quelli che mi piacciono, che siano compositori dell’ottocento o band contemporanee. E’ la via che cerco di seguire con me stesso, cercando di lasciare sgorgare fuori ciò che ho da dire come persona prima che come compositore.
F4L: Sei un compositore che ha musicato diversi tipi di audiovisivo: documentario, film narrativo, film d’animazione, tv movie e cortometraggio. Il tuo approccio musicale cambia a seconda del formato con il quale ti andrai a relazionare? Oppure in base al target di pubblico cui è indirizzato il prodotto?
ST: A dirti la verità non so cosa sia un “approccio musicale”. Mi spiego, quando lavoro ad un film mi confronto molto con il regista dal quale cerco di capire quale sia il suo riferimento emotivo, il nucleo di significato espresso o inespresso che sottostà alla narrazione. E’ come essere un cuoco chiamato per cucinare ad una festa. Se mi dicono che la festa è per un bambino di dodici anni, non mi metto a cucinare sushi e lascio il peperoncino nella dispensa. Se la festa è per una laurea probabilmente parto dallo champagne e ci costruisco il buffet intorno. Ecco, vedi, è un processo naturale, di sintonizzazione con la realtà. Il target invece è uno di quei concetti che uccidono l’arte, perché ti costringe ad uscire da te stesso e ad entrare dentro una visione immaginaria dell’altro, dei suoi desideri, dei suoi gusti. E’ un’operazione razionale nell’accezione più cruda e glaciale del termine. E’ il motivo per cui la tv produce spazzatura e la musica leggera reitera canzoni amabilmente melodiose e vuote. La frase più bella che ho sentito nelle ultime settimane è di Eduardo De Filippo e recita più o meno così: «chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita trova lo stile».
F4L: Sei laureato in Antropologia Culturale: quanto ti aiuta conoscere dal punto di vista scientifico l’uomo e la società in cui vive, quando elabori una composizione musicale per un documentario (genere che solitamente veicola fatti realmente vissuti, come nel caso di “Sfiorando il muro”)?
SL: L’Antropologia è un’arma a doppio taglio, ti dà gli strumenti per comprendere ma anche quelli per simulare. Come diceva uno dei più grandi antropologi di sempre Claude Lévi-Strauss: «è possibile dimostrare la superiorità degli autobus sui tram e viceversa». L’antropologia aspira a divenire scienza ma resta per me una disciplina umanistica nel senso più alto del termine, una sorta di poesia della vita che possiede strumenti e mezzi raffinatissimi ma che non può funzionare con la stessa logica della chimica. Ciò che a me ha dato e continua a dare è la possibilità di capire l’altro. L’altro è tutto: una musica orribile, una storia incredibile, un’usanza inconsueta, una dieta incomprensibile, una lingua bizzarra e un’attitudine ambigua. L’antropologia ti spiega che in natura tutto è possibile e che, se anche le ragioni sono incomprensibili, delle ragioni ci sono. Nello scrivere musica questa visione non aiuta molto perché in quel momento sono io da solo, ma probabilmente aggiunge una sorta di tara invisibile al rapporto col mondo.
F4L: Qual è secondo te il ruolo della musica all’interno dell’arte cinematografica? Credi che il suo essere un linguaggio principalmente visivo possa declassare la colonna sonora a semplice accompagnamento? Hai avuto modo di confrontarti con alcuni spettatori in merito all’importanza della musica nei film?
SL: Io amo i suoni, la musica. Quando vado al cinema e trovo un film che ne fa un uso magico sono felice. Forse oggi nessuno ha più tempo di chiudere gli occhi ed ascoltare seduto e immobile un disco e forse quelle due ore trascorse al cinema svolgono questa funzione sostitutiva. La musica a volte mi fa provare la sensazione di essere “lanciato” in alto, come proiettato fuori, in un regno di consapevolezza e chiarezza trascendentale. Penso che debba essere questo il ruolo della musica. Al cinema, in macchina, nell’iPod, al falò. Per anni ho pensato che solo la musica pura fosse degna di essere chiamata tale e che le sue applicazioni pratiche non fossero che una sorta di oltraggio. Poi ho scoperto che proprio grazie a queste applicazioni riuscivo a concretizzare il mondo musicale che avevo dentro, che altrimenti sarebbe rimasto nebuloso e indistinto. I confini che mi danno le narrazioni mi permettono di indirizzare la creatività in una direzione definita, unica, e ciò mi consente di divenire pratico. Per anni ho composto musica e l’ho lasciata fluttuare nell’aria.
F4L: Infine, c’è qualche progetto a cui stai lavorando in questo momento? C’è invece qualche avventura ancora da iniziare?
SL: Il prossimo lavoro è uno spettacolo teatrale che prende le mosse da un avvenimento accaduto durante gli anni settanta che ha coinvolto la cultura, il teatro, la psichiatria e forse l’anima della nostra società e del nostro modo di essere uomini. Lavorerò insieme a Silvia Giralucci (Sfiorando il muro) che curerà la drammaturgia e la realizzazione. Non posso dirti ancora molto a riguardo perché non so neanche io in quale direzione mi muoverò, siamo ancora in fase di sviluppo e sto raccogliendo idee e suggestioni giorno per giorno. Se per avventure da iniziare intendi quelle che auspico per il futuro, cerco di concentrarmi sul presente, che credo sia l’unica dimensione temporale realmente esistente. Cito la frase di una persona molto saggia: «ci sono solo due giorni dell’anno in cui non puoi fare niente, ieri e domani».