Un’estate da giganti: recensione

ESCE A QUASI UN ANNO DI DISTANZA DALL’USCITA FRANCESE LA TERZA OPERA DEL REGISTA-ATTORE BOULI LANNERS

GENERE: drammatico

USCITA: 31 ottobre 2012

Bouli Lanners, sconosciuto ai più, si è fatto notare dagli appassionati del cinema francese con un’opera intrigante come El Dorado che sapeva mescolare atmosfere grottesche di gusto quasi jarmuschano con un tocco fotografico che prendeva chiaramente Wenders come punto di riferimento. Dopo un’opera così, aspettavamo trepidamente un film simile dal regista-attore apparso anche in Kill me, please e in Un Sapore di ruggine e ossa. Lo stile però nel suo nuovo Un’estate da giganti (in francese Les Géants) si è raffinato prendendo spunti dal romanzo di formazione ottocentesco, ma aggiornandolo: il risultato è una sorta di Stand By Me degli anni 2000, più autoriale e con ritmi decisamente diversi, ma indubbiamente affascinante su vari livelli.

I giganti del titolo in realtà sono tre ragazzi tra i 13 e i 15 anni che rimasti da soli nella casa di campagna fanno quello che a loro appare assolutamente normale, in assenza dei loro genitori e per il momento dei soldi: affittano la loro dimora a uno spacciatore e restano a vagabondare nella natura intorno aspettando la prima rata che puntualmente non arriva. A loro toccherà riambientarsi nel mondo esterno generalmente inospitale e infine nella palude, in un’esperienza che indubbiamente segnerà i ragazzi per molto tempo.

Visto che i protagonisti sono giovani e inesperti, il più delle volte in situazioni difficili da gestire a livello pratico e soprattutto emotivo, è impossibile non empatizzare con loro. Anzi, come accade per il viaggio nella natura di Emile Hirsch di Into The Wild, anche lo spettatore vista la bellezza dei luoghi rappresentati vorrebbe fare un giro in barca coi ragazzi e tornare a quel periodo in cui anche se eri pieno di problemi, tornavi facilmente a ridere per una scoreggia: e se nel film di Penn c’era la voce di Eddie Vedder a testimoniare quell’odissea, qui abbiamo le bellissime musiche di The Bony King of Nowhere, che accentuano il senso di perdizione di fronte a certi paesaggi in cui vale la pena perdersi, senza fare troppe domande.

La visione dell’adolescenza di Lanners è crepuscolare e cupa, ma in fin dei conti lui crede in questi ragazzi di città catapultati nella campagna che non utilizzano quasi mai il cellulare e non vedono la televisione. Anzi, in un certo senso il regista ammira la loro ingenuità, quando questi si liberano di tutti i beni e comodità, per inseguire l’avventura trovando solo guai: proprio questo insieme di difficoltà li porrà di fronte a delle questioni esistenziali riguardo la crescita e il peso che certe responsabilità comportano nella vita.

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