30 tff – tabun mahabuda/ the first aggregate: recensione film

IL CINEMA SI RACCONTA ATRAVERSO LE VICENDO DI UNO STUNTMAN CHE FINALMENTE OTTIENE UNA PARTE DA PROTAGONISTA

Altro film sul mondo del lavoro in concorso al Torino Film Festival e di conseguenza anche papabile vincitore del Premio Cipputi: Tabun Mahabuda di Emyr ap Richard e Darhad Erdenibulag, il cui titolo internazionale in inglese è The First Aggregate. Il film affronta la tematica della precarietà proprio nel mondo della settima arte. Il protagonista della vicenda è infatti uno stuntman, che ritorna a casa sua dopo essere guarito da una brutta ferita, che si è procurato durante un incidente su un set cinematografico. L’incontro con una donna gli cambierà la vita, dato che riesce ad ottenere finalmente una parte da protagonista, in un film che è incentrato proprio sulla vita di un famoso attore. Nonostante Tabun Mahabuda racconti una storia abbastanza semplice, è strabiliante il modo in cui i due registi abbiano scelto di girarla. Si tratta di una vicenda (in tutti i sensi) di poche parole, in cui i corpi dei protagonisti altro non sono che degli involucri abitati da anime che non riescono a creare rapporti umani. Lo sguardo dei due registi è esterno ed oggettivo, anche se qualche volta, in un paio di scene, diventa benevolo, mantenendo però il giusto freddo distacco e la stessa intensità di giudizio per tutta la narrazione. Emyr ap Richard e Darhad Erdenibulag guardano al maestro taiwanese Tsai Ming-liang, portando sul grande schermo un film di solitudine e con personaggi alienati che vivono con disagio il mondo contemporaneo: uomini e donne che urlano il loro dolore perché non riescono a vivere appieno la propria vita, inappagati in tutto ciò che li circonda, dal lavoro ai sentimenti umani, in una realtà che sembra senza purezza. Forse a Tabun Mahabuda manca ancora qualche cosa, soprattutto quella miscela vincente di melò e satira, critica sociale e culturale e la provocazione che tanto piace del cinema orientale.

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