UN DOCUMENTARIO CHE RACCONTA UN FRAMMENTO INEDITO DI STORIA
Gli orrori della guerra sono ovunque, anche nei luoghi più impensati. Ed è uno di questi orrori che il regista Marco Bertozzi riporta alla luce con il suo documentario Profughi a Cinecittà, proiettato ieri alla Casa del Cinema nella rassegna Pitigliani Kolno’a Film Festival, attraverso i protagonisti di quell’agonia.
Nel 1943 i nazisti “deportano” 947 uomini rastrellati dal quartiere Quadraro a Cinecittà, piazzandoli negli studios come animali al macello. Poco più tardi, a ottobre dello stesso anno, decidono di depredare quanto c’è all’interno degli studios stessi e 16 vagoni merci carichi di materiale e attrezzature finiscono in Germania e a Salò. Nel gennaio 1944 gli americani, mentre bombardano Roma, colpiscono anche Cinecittà, e in giugno decidono di requisirne il controllo e farne un campo profughi. Ma sui generis. Da una parte, rigidamente separata, l’area internazionale, dall’altra i rifugiati italiani. Tra cui i figli dei coloni in Libia come le sorelle Ostrini, Angelo Iacono diventato poi produttore cinematografico, gli esuli triestini e dalmati, molti ebrei che scappavano o rientravano dai campi di concentramento. Storie di intere famiglie separate solo dalle scenografie dei set cinematografici, tutti dentro al Teatro 5, in una promiscuità totale e innaturale.
La cosa interessante, e ironicamente tragica, molte di queste persone vennero poi aiutate dagli studios a racimolare qualche soldo facendo le comparse: in Quo Vadis?, per esempio, molti sono i profughi che passano davanti alla macchina da presa.
Un dramma umano che è durato fino al 1950, quando il campo di Cinecittà viene sgomberato – nel documentario un giovanissimo Giulio Andreotti, sottosegretario agli interni dice “dobbiamo mandare la gente a casa e restituire questo luogo al cinema “- senza però trovare soluzioni reali per tutti gli “sfollati”. Iacono fu ospite altri tre anni di due campi, le sorelle Ostrini lo stesso.
La cosa interessante è che questo documentario è basato quasi totalmente sul ricordo delle persone che stavano a Cinecittà anche perché il materiale di repertorio è pochissimo, e il regista decide di utilizzarlo tutto nella parte iniziale del film come una presentazione dell’orrore, ed è di proprietà degli americani.
Risuona nella testa come un brivido beffardo, una volta usciti dalla sala, la famosa frase di Mussolini “la cinematografia è l’arma più forte”.
(7 novembre 2012)