UN NUOVO MODO DI INTENDERE IL CINEMA RACCONTANDO UNA STORIA DI FOLLIA
GENERE: documentario
DATA DI USCITA: n. d.
L’inizio del film è affidato ad una citazione da Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie: «qui siamo tutti matti». Amos Poe sceglie questa frase precisa in riferimento alla persona cui è dedicato A walk in the park, Alice, la madre del protagonista, con problemi di salute fisica e mentale. Il maggiore dei suoi due figli, Brian, ha un rapporto “speciale” con lei, che lo devia psicologicamente e lo costringe a curarsi con dei farmaci che gli provocano dipendenze varie e in generale lo rendono depresso.
Ma questo è solo l’incipit dell’idea cinematografica di Poe: la trama, in questo film, ricopre indubbiamente il ruolo minore; l’autore, con l’aiuto del bravissimo montatore, si divertono a giocare con la forma e i linguaggi audiovisivi, in un turbine di colori, immagini sovrimpresse e suoni sovrapposti o fuori sinc. Ma l’estro creativo di Poe non si esaurisce certo qui: l’estetica di questo documentario attinge da quella propria della video arte, del linguaggio intermediale, che prevedono una commistione di immagini e tecniche visive davvero suggestive.
A walk in the park rivisita e mette in discussione le teorie e le strutture che hanno sempre caratterizzato il documentario: le interviste sono fatte controluce, in modo che si veda solo la silhouette di chi sta parlando, l’uso dei filmati originali (in questo caso girati da Brian Bass con una cinepresa amatoria) non manca, ma tutto il resto è materiale completamente nuovo per un film che per definizione dovrebbe raccontare una “realtà”. La storia di Alice e dei suoi figli è realmente accaduta, ma Poe ce la racconta in modo così complesso e ricco di spunti visivi (tra cui citazioni da grandi scrittori dei secoli scorsi) che quasi si rischia di fare confusione e di non capire pienamente cosa succede o cosa ci vuole dire l’autore.
La categoria Maxxi del Festival Internazionale del Film di Roma ci propone subito un ottimo prodotto estetico, frutto di un gran lavoro di ricerca su diversi linguaggi espressivi. Forse però, nel film di Poe c’è una pecca: la scelta di comunicare sensazioni attraverso tecniche da video arte sempre presenti sullo schermo ottiene un effetto di assuefazione su chi guarda: spesso, l’attenzione cala perché gli stimoli a livello visivo sono così tanti da non riuscire a tenerli tutti in considerazione e dunque ad assorbirli. Ma si tratta di un inconveniente inevitabile (e comprensibile) dato l’alto livello di sperimentazione che il regista mette in atto.