Buon anno sarajevo: recensione

QUANDO IL CINEMA DIVENTA LA MIGLIORE TERAPIA PER ELABORARE I TRAUMI POST-BELLICI

GENERE: Drammatico

USCITA: 3 gennaio 2012

Ho trovato varie traduzioni italiane per il termine Djeca, titolo originale di questo Buon anno Sarajevo, ennesima traduzione sbagliata da parte dei nostri distributori per il titolo Menzione Speciale della Giuria Un certain regard  a Cannes, ora finito nella lista dei ‘papabili’ per l’Oscar come Miglior Film Straniero: quella che sembra più adottarsi al contesto del film è ‘figlio’. Perché pur non essendo un’opera sul rapporto padri-figli, l’opera seconda della talentuosa regista bosniaca Aida Begic è un intenso ritratto di chi si è lasciato dietro i traumi della guerra e non è riuscito ancora del tutto a superarli: sono i figli del conflitto per l’appunto i protagonisti di questa storia dall’impatto così forte.

Come per il nascente cinema rumeno che riesce a essere diretto e inventivo partendo da situazioni quantomeno burrascose, il cinema bosniaco, da noi praticamente sconosciuto, anch’esso cerca di elaborare attraverso le immagini il dramma di un paese che non ha saputo rialzarsi dagli orrori della guerra ed è ora atterrito dalla crisi economica mondiale che scoraggia ancora di più gli abitanti. Questa situazione la viviamo attraverso gli occhi di Rahima (un’efficace Marija Pikic) costretta ad occuparsi del fratello minore, da poco uscito dall’orfanotrofio. Il film procede con la rappresentazione dei conflitti che la protagonista si porta dentro, soprattutto quello della religione musulmana a cui si sente appartenere e per cui è costretta lei sola a portare il velo, per un atto di fede che la rende malvista agli occhi della comunità.

Non sono spiegate a sufficienza le ragioni di questa scelta, perché la regista decide di poggiare l’occhio sul rapporto tra i due fratelli, incapaci di un vero contatto umano e ancora segnati da un passato mortificante. In tutto questo è la stessa Rahima a dire che tutto sommato il suo lavoro di cuoca in un ristorante di alto livello è la sua unica fuga dalla realtà che la circonda. Perché mantenere un ragazzo adolescente, soggetto ad esplosioni di violenza in classe (ma non ne sarà costretto?) è una cosa molto più difficile di quello che sembra.

La regista come molti della sua generazione si attacca ai protagonisti con la macchina a mano ed è capace di ricreare scene dalla notevole soluzioni estetiche, grazie anche al ricorso ai filmati d’archivio con qualità da videocassetta che ben si adattano a ricreare i flashback della protagonista, costretta a sentire ogni giorno i petardi lanciati dagli adolescenti per strada, così simili ai rumori delle bombe lanciate sui civili anni prima. Nell’arco della storia la protagonista sarà soggetta a una vera evoluzione che appassiona gli spettatori come un viaggio ‘on the road’ in una terra di nessuno, desolante e disperato. C’è pure il tempo per un sogno dalle tinte forti che sembra quasi richiamarsi al memorabile inizio de Il posto delle fragole.

Forse il maggior difetto della pellicola risiede in un uso di musica classica alquanto snodato e ‘urlato’ e in un finale piuttosto affrettato. Ma una volta finita la visione lo spettatore più coraggioso sente il bisogno di storie di questo tipo, forti e destabilizzanti, capaci di darci una visione appassionante di realtà così dure da sopportare. Se solo le case di distribuzione fossero più coraggiose…

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