La bottega dei suicidi: recensione film

LECONTE PER IL SUO PRIMO FILM ANIMATO SCEGLIE IL GENERE DARK MA NON CONVINCE

GENERE: ANIMAZIONE

DATA DI USCITA: 27 DICEMBRE

Non sono molti quelli che riescono a creare un film animato dark e pregno di humor nero calibrando bene il verosimile con la buona dose di fantasia che una pellicola di questo genere deve avere. Ci è riuscito in un passato remoto Charles Addams e in tempi non sospetti Tim Burton. Anche Herny Selick, già regista di Nightmare before Christmas ha fatto un ottimo lavoro, con Coraline e la porta magica.

Per la prima volta alla regia di un film d’animazione Patrice Leconte decide di cimentarsi proprio in questo genere, ispirandosi ai maestri sopra citati senza riuscire però a coglierne lo spirito.

La famiglia Tuvache è proprietaria di un negozio che si chiama La bottega dei suicidi e che, come la stessa insegna suggerisce, è nato per porre fine alla vita di chi non vuole più andare avanti. La “serena” attività viene però turnata dalla nascita del terzogenito che, a differenza di genitori e fratelli è gioioso e entusiasta della vita. Realizzato in una tecnica che è un misto tra il disegno a mano e quello digitale e tratto dall’omonimo libro del francese Jean Teulè il lungometraggio di Leconte, scandito da troppe canzoni che accompagnano la narrazione, risulta privo di ironia e troppo buonista disapprovando palesemente l’esistenza del grigiore e della malinconia e esaltando, quasi con isteria, la gioia, il colore e la felicità.

Ma a parte questo schierarsi netto dalla parte dei cuorcontenti il più grande errore che il regista fa sta proprio nel togliere ai personaggi del lungometraggio quella caratterizzazione eversiva fondamentale per un cartone di questo genere. L’antieroe diverso non si trasforma in eroe, nasce e rimane tale: niente di più noioso.

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