IN CONFERENZA STAMPA LA VERA STORIA DEL SUO ULTIMO FILM
E’ un fiume in piena il Gabriele Muccino visto ieri nella conferenza stampa romana del suo ultimo film Quello che so sull’amore.
Arrivato di fronte ai cronisti con la corazza di ferro, l’incontro si trasforma a tratti in un monologo in cui il regista sente il bisogno di mettere chiarezza sulle tante voci circolate negli ultimi giorni in merito alla ormai celebre chiacchierata di qualche settimana fa con il giornalista Curzio Maltese, dalla quale erano emerse accuse pesanti nei confronti dell’industria di Hollywood e della centrifuga pazza nella quale si è trovato a girare.
Un “Muccino pensiero” onesto e sincero che molto ridimensiona i toni della polemica, non mancando però di dare la sua versione dei fatti, in risposta alle pressanti domande dei giornalisti. La delusione per l’evoluzione di questo ultimo film è palpabile e lui stesso non ne fa mistero. Un film “ibrido”, almeno nelle intenzioni, così come i suoi lavori precedenti, ma che per le esigenze di marketing e di catalogazione entro un genere predeterminato, è finito col diventare, in fase di lancio e anche in quella di lavorazione, una commedia romantica.
Ben distante dal drammatico cui tendeva l’autore.
La critica muove quindi verso un’industria, in questo caso indipendente (ben 13 i produttori tra cui lo stesso Gerald Butler) e non legata a major come Sony, sua compagna di avventura con Will Smith, che troppo schiava del responso del pubblico finisce col legare le mani ai registi in cerca del film perfetto per l’audience di riferimento.
“Un meccanismo infernale per cui se un progetto non raggiunge dei livelli di gradimento superiori all’80% in proiezioni test con un gruppo campione, questo passa direttamente in Dvd e neanche esce in sala. Quindi il mio film al pubblico in realtà è piaciuto”, precisa il regista.
Gli incassi, in attesa del risultato italiano, non sono però dalla sua. 13 milioni di dollari sono un bottino sotto le aspettative per il solo territorio americano, ma anche su questo fronte Gabriele difende la sua creatura: “Di flop si può parlare quando un film costato 100 milioni ne incassa venti e questo non è il mio caso” (il film ne è costati circa 20 n.d.r.). “Inoltre il film è arrivato in sala in un week end storicamente debole perché antecedente alle vacanze di Natale, in cui le donne vanno a fare shopping, tant’è che quel giorno ero l’unico ad uscire. In realtà a questo film è mancato il passaparola giusto”.
Il suo rapporto con Hollywood non è però negativo come potrebbe sembrare. Muccino non è ipocrita su questo punto, riconoscendo come i suoi più grandi successi sono figli di quella realtà e del personaggio che forse la incarna meglio di tutti, Will Smith. “Appena arrivato in America Will mi disse che non era tanto importante come veniva fatto un film, ma come questo veniva venduto. Ora capisco in pieno il senso di quelle parole. E dopo le esperienze di questi anni in America potrei scrivere un libro su quanto visto”.
La sensazione diffusa è che al nostro concittadino manchi terribilmente il sodalizio lavorativo e la complicità amichevole del divo ex Principe di Bel Air. Primo attore statunitense a credere nel suo talento e a difenderlo di fronte ai potenti delle majors. Un lasciapassare in carne ed ossa per il dorato mondo dello show-biz del quale il cineasta è ormai parte integrante: rispettato e conosciuto da attori, registi e produttori che contano.
Vale pena ricordare che gli ultimi due capitoli della saga di Twilight erano stati proposti proprio a lui, salvo poi declinare l’invito. E spinto a parlare del cast di questo ultimo lavoro, dalle sue parole ne emerge un rapporto sincero e di stima, confermato peraltro da alcune dichiarazioni di Uma Thurman, desiderosa in futuro di lavorare ancora con lui.
O dalla profonda amicizia instauratasi con Dennis Quaid: “Abbiamo legato così tanto che nell’ultimo periodo, dopo la sua separazione, era ospite fisso a casa mia…anche troppo. Ogni domenica suonava il citofono e sapevo che era lui che portava i suoi figli per giocare con i miei. Chiedete a mia moglie che si doveva prendere cura di tutti…”.
L’unica stonatura di questo quadretto quasi familiare arriva quando sul protagonista Gerald Butler, anche produttore del film, quasi gli scappa un commento seccato. Ma si trattiene all’ultimo, imprigionando controvoglia il suo istinto verace, segno che ha imparato bene la lezione di Hollywood.
Dopo tutti questi sassolini dalle scarpe la domanda sorge allora spontanea: cosa ti spinge a lavorare ancora con loro? “In America vi è una competizione enorme e non è facile scegliere sempre il progetto migliore. E poi a quel punto si compete con registi come Spielberg, Ron Howard, Zemeckis. E’ come dover giocare a pallone contro Messi. E’ che io sono matto, infatti sono l’unico italiano ad aver fatto film non solo in lingua inglese come ad esempio Bertolucci, ma anche americani al cento per cento. È una sfida con me stesso. La voglia di dimostrare di aver vinto, decidendo io quando uscire dall’arena, non loro, e facendolo con onore…”