Django unchained: recensione film

TARANTINO CI PORTA NEL SUO WEST, FATTO DI POLVERE, SPAGHETTI E SANGUE DEI RAZZISTI

Genere: spaghetti western

Uscita in sala: 17 gennaio 2013

Voto: 4,5 su 5

La D è muta, ma la sua pistola sillaba benissimo, intona il canto della vendetta.  E si fa strada nella polvere da sparo, nei fiotti di sangue e nelle eleganti piroette linguistiche che monsieur Tarantino ripone con dedizione nel suo ultimo film: Django Unchained. Non il peggiore, di certo non il migliore, ma una e vera propria marcia musicale all’interno del suo percorso verso la mecca del pulp. Inutile tirare in ballo altro.

La storia da lui scritta e diretta non brilla per originalità, anzi non prova nemmeno ad esserlo, vuole concentrare all’interno del suo incedere lento e peccaminoso tutte le facoltà che Quentin porta con sé da vent’anni. Ornare il calesse con il suo pensiero, indossare gli stivali del sensazionalismo ed ergersi a totem della sua personale cinematografia oramai di culto.

Forse perdendosi un po’ nella borghesia del proprio lessico, è vero, ma allo stesso tempo attaccando lo spettatore e ritraendosi come uno schermidore professionista, balzando dal piacere estetico delle sue riprese, ai sermoni  magistrali che comprendono negrieri spietati e schiavisti del sud. La lotta tra mandingos è il giusto pretesto per affrontare un tema brutale, una spina nel fianco, l’ottusaggine di un paese immaturo e ricco di bifolchi, ma anche di uomini e donne d’onore. Tarantino li ripesca entrambi dalla carta straccia e ci mette passione e sudore per raccontarne le gesta.

In pieno fomento che precede la guerra civile USA, uno schiavo, Django, viene reso libero dal Dr. Schultz, cacciatore di taglie. Gli insegnerà la professione e lo condurrà alla ricerca della moglie Broomhilda, serva del latifondista Calvin Candie. Seguendo una propria deontologia che inevitabilmente porterà allo scontro tra classi sociali, tra giustizia e ingiustizia, tra vera stupidità e ancor più stupido opportunismo.

In tutti gli aspetti un sincero omaggio al nostro cinema più naif, quello spaghetti western in cui si colloca l’originale Django di Sergio Corbucci (1966) e da cui LUI, prendendone sapiente spunto, tira fuori una storia totalmente diversa, di denuncia sociale in cui il duello diventa etnico e la cartuccera simbolo di libertà e cambiamento. Il cappello di Jamie Foxx non impedisce all’occhio di fissarsi estasiato sul terzetto di comprimari, il teutonico Christoph Waltz, l’eclettico serpente Samuel L. Jackson (alla miglior prova della sua carriera) e l’incallito Leonardo Di Caprio, sibillinamente adeso al ruolo che interpreta.

La potenza dei loro incontri, la tensione del non detto e la violenza del parlato sono l’urlo perfetto in cui si manifesta tutto l’ego di QT, come ne Le Iene, come in Bastardi senza gloria, la mano che prende il controllo del suo teatrino e ci regala tempi comici e drammatici fusi assieme perfettamente. Ci mette solo un tantino di troppo a regolare i conti e questo penalizza lo scorrimento della visione, ma Django resta un prodotto di totale intrattenimento ludico e di questo  va estremamente fiero il suo padrone.

Il vero negriero.

 

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