Freakbeat: recensione film

È STATO PRESENTATO DA DOC.IT AL MESE DEL DOCUMENTARIO IL LAVORO DI LUCA PASTORE

Ne avevamo sentito parlare per la prima volta più o meno un anno fa a Torino 29 e già lì Freak Beat, documentario di Luca Pastore aveva avuto un buon successo di pubblico e critica.

Presentato da DOC.it a Il mese del documentario il lungometraggio ha come caratteristica principale proprio una tendenza a volersi allontanare dai canoni del genere a cui appartiene risultando un lavoro borderline tra i tipico docufilm e un film vero e proprio.

Il merito di questo bipolarismo è dovuto soprattutto all’interprete del documentario ovvero Roberto Freak Antoni, intellettuale demenziale, voce storica del gruppo punk degli Skiantos (tuttora attivo) e già interprete di Beket (2008) di Davide Manuli.

È lui che fa da Cicerone istrionico e racconta, come figlio stesso di quella generazione, la musica e la cultura angloamericana, dalla beat generation in poi, passando anche per l’Emilia e per i suoi primi esponenti beat, Giccini e l’Equipe 84.

Il viaggio che Antoni fa con sua figlia (che in realtà è l’attrice Sofia Fesani) è alla ricerca di una sorta di Sacro Graal, una leggendaria session musicale d’epoca tra l’Equipe 84 e Jimi Hendrix (chiaramente un falso), ma tramite questo percorso il documentario diventa un road movie in parte girato in bianco e nero, in parte da una telecamera amatoriale che usa la figlia del protagonista e ancora in alcuni momenti appaiono chiazze di colore e tublace visivi che danno al documentario un dinamismo visivo davvero interessante.

Con una narrazione che ricorda easy rider Luca Pastore parla degli anni beat creando lui stesso un lavoro che si rifà all’epoca: sofisticato, fuori dalle righe e interessantissimo.

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