Berlinale 2013: nobody’s daughter haewon-recensione film

SEMPRE TROPPO UGUALE A SÈ STESSO PER STUPIRE IL REGISTA SUD-COREANO HONG SANSOO

Res fortuita. È su questo che si sono sempre basate le pellicole del cineasta sud coreano Hong Sansoo: tutto accade a caso per poi far ritrovare i suoi personaggi sempre soli.

Questo schema lo si ritrova anche in Nobody’s daughter Haewon in cui la Haewon del titolo vive una storia d’amore complessa e nel narrarla Sansoo scandisce il suo tempo attraverso la una serie di incontri: Jane Birkin la turista, la madre in partenza per il Canada, il suo grande amore, un professore americano che la vuole sposare, una coppia di amici e poi di nuovo il suo grande amore che porta la pellicola al respiro del finale.

Per raccontare tutto questo attraverso le immagini il regista usa un movimento di macchina schizofrenico, una quantità eccessiva di zoom e alcun montaggio.

Forse è l’unica scena che abbia un senso quella del risveglio di Heawon in una biblioteca con il viso appoggiato al libro dal simbolico titolo The Loneliness of the Dying (di Norbert Elias) perché ci fa capire che tutto quel che accade è a metà strada tra il sogno la realtà e magari in qualche modo questa consapevolezza riesce anche a circoscrivere la pellicola in quel limbo e a darle un minimo di senso.

Certo lo spettatore si trova spiazzato innanzi a tutti questi personaggi senza un minimo di storia e caratterizzazione, come se li incontrasse anche lui per caso. Incontri fortuiti molto spesso privi di senso. Una storia che se avesse forma geometrica sarebbe un cerchio: la protagonista parte sola e si ritrova sola. In mezzo? Quasi il niente.

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