IL MESE DEL DOCUMENTARIO PREMIA SAVONA E FILMFORLIFE GLI DEDICA UN’INTERVISTA
È terminato lo scorso finesettimana, il festival organizzato da Doc/It dedicato al documentario; un mese fatto d’incontri e di documentari interessantissimi, che ha registrato una grandissima affluenza da parte del pubblico. Tahrir – Liberation Square è il titolo del documentario diretto da Savona, girato durante la rivoluzione d’Egitto, direttamente da dentro la piazza del Cairo, dove lui ha vissuto, giorno e notte per dieci lunghi giorni. In questo modo Tahrir diventa una cronaca in tempo reale della rivoluzione, seguendo in particolare tre tra milioni di manifestanti; due ragazzi, Ahmed e Elsayed e una ragazza Noha. Vivono nelle tende a Tahrir Square e non abbandonano la piazza, per nulla al mondo. Savona li pedina ed è grazie a loro, alla loro passione per il proprio paese, al loro desiderio di libertà, che riesce a realizzare 90 minuti di inedita eccitazione.
Vincitore del David di Donatello 2012 e del Nastro d’argento nel 2012, il film di Stefano Savona ha partecipato in selezione ufficiale ad alcuni fra i più importanti Festival del mondo fra i quali la Viennale 2011, il DocLisboa 2011 e il Festival di New York e a Roma a Il Mese del documentario conquista il Premio del pubblico.
Come è nato il documentario? Perché hai deciso proprio di raccontare di questa rivoluzione?
La mia passione per l’Egitto nasce quando, vent’anni fa, studiando egittologia all’Università, ho visitato l’Egitto. È stato uno shock conoscere quel paese nel 1991, ed è stato lì che ho capito che il mio destino non era quello dell’archeologia ma quello di raccontare storie. La mia vocazione di documentarista è nata lì. Per questo motivo ho sempre sentito il bisogno di tornare in Egitto, per riflettere, per prendere ispirazione ma, non ero mai riuscito a trovare l’idea giusta per una storia sull’Egitto, fino a Tahrir. Quando la rivoluzione è iniziata, non potevo evitare, non potevo sottrarmi a questo progetto. In più fare un film sulla rivoluzione era un altro dei miei sogni, perciò era inevitabile che appena saputo dello scoppio della rivolta, sia partito. Sono arrivato il 5° o 6° giorno della rivoluzione; ho portato con me la macchina fotografica più piccola che avevo per non dare nell’occhio ma, grazie al caos del momento, la polizia non mi ha bloccato e sono arrivato diritto verso la mia meta: piazza Tahrir.
Come è nato il rapporto con i rivoluzionari e perché hai deciso in particolare di raccontare di questi tre ragazzi?
Quando sono arrivato nella piazza, sembrava che il più era fatto, ma in realtà non era così; dovevo capire come volevo raccontare questa storia, cosa volevo aggiungere a un fatto storico che già in moltissimi,giornalisti e non, stavano narrando. Il mio punto di vista, in quanto italiano, sia pure appassionato di Egitto, non era abbastanza, dovevo quindi incarnare il mio sguardo in quello di alcuni protagonisti del luogo. Dovevo raccontare come le persone hanno fatto questa rivoluzione, come l’hanno vissuta. L’obiettivo era dunque quello di mettersi accanto ai personaggi e vivere le loro emozioni, desideri e paure. Ho incontrato subito i tre protagonisti, i primi che avevo istintivamente voglia di seguire, li ho seguiti. Inizialmente è stato tutti istintivo, non potevo riflettere a lungo. Sono stato fortunato perché le esperienze dei miei precedenti documentari mi hanno dato la razionalità di affrontare le decisioni giuste. In due settimane ho quindi fatto il film che avete visto.
– Come è stato fare un film a presa diretta sul reale? Avevi un’idea prima di iniziare?
No. E non era facile averla, perché in quel momento, come dicevo, è l’istinto a muovere le tue azioni. Al tempo stesso, però, devi essere in grado di restare concentrato, nonostante i rischi, sullo specifico del lavoro, mettere a fuoco, avere un buon audio, seguire le persone giuste, immaginarsi il montaggio. Il film è stato girato in assoluta solitudine, quindi suono, immagine, regia, rispondono al tentativo di fare qualcosa che valga il rischio.
Come convivi in queste occasioni con la consapevolezza di rischiare tanto?
I rischi fanno parte del gioco. Il vero rischio cosciente è quello di non riuscire a fare il film. Il rischio fisico diventa una stupidaggine se poi non riesci a raccontare la tua storia.
Nel tuo documentario, si nota un interesse maggiore per l’organizzazione della piazza e i suoi protagonisti, più che per gli scontro violenti con la polizia. Perché?
Avevo capito fin dall’inizio che quello che mi interessava era il movimento di ribellione degli uomini della piazza, quello che loro pensavano e che stavano vivendo. Gli scontri erano la parte meno interessante, perché uno scontro è perfettamente uguale a qualsiasi altro. I momenti di confronto e di discussione sono forse la parte più importante di tutto il film. La piazza non andava mai a dormire e la sera, al termine degli scontri ovunque ti girassi c’erano dibattiti continui. Ognuno parlava di cosa si doveva fare per il paese, ognuno si confrontava sui grandi temi dell’Egitto, e questa è la cosa fondamentale. Ogni notte vedevi cittadini egiziani che per decenni non avevano potuto esprimersi per la paura di essere puniti, e che finalmente si riappropriavano di uno dei diritti fondamentali dell’uomo, è stato come vederli respirare di nuovo.
Pensi che il popolo italiano sia in grado di ribellarsi come è successo in Egitto?
Se la rivoluzione è stata plausibile in Egitto lo sarebbe dovunque. Però in Italia, il benessere e l’idea democratica che ci governa, fa sentire meno la necessità di scendere in piazza.