STAVOLTA GUS VAN SANT SI RIFUGIA NEL POLITICAMENTE CORRETTO PERDENDO DI SPESSORE
GENERE: drammatico
DATA DI USCITA: 14 febbraio
La pietas è il sentimento che induce l’uomo ad amare e rispettare il prossimo e se c’è un regista che di questo sentimento ha fatto il leit motiv dei suoi migliori lavori questo e Gus Van Sant.
Promised land avrebbe dovuto essere il film di esordio alla regia di Matt Damon che, per impegni precedentemente presi, si è limitato, forse per nostra fortuna, a firmarne solo la sceneggiature insieme al co-protagonista John Krasinski.
Nonostante sia stato Van Sant a prendere il timone della direzione, del cineasta che è stato in grado di dar vita alle immagini di strepitosi film del calibro di Elephant, Paranoid Park e Last days c’è davvero molto poco.
Steve Butler è un uomo che è cresciuto in zone rurali ma che è diventato un agente in carriera di una grossa compagnia, la Global, che lo invia insieme a una collega a McKinley, una cittadina rurale. Il loro compito consiste nel convincere gli abitanti a cedere i loro terreni perché vi possano avvenire trivellazioni allo scopo di ricavarne gas naturale. Si prevede che, stretti dalla morsa della crisi, molti non avranno difficoltà a cedere le loro proprietà ma il compito si presenta invece meno semplice di quanto prospettato. Anche perché entra in gioco Dustin Noble, un attivista ambientale apparentemente intenzionato a impedire il successo della compagnia per cui Butler lavora.
L’impegno civile che vorrebbe avere la pellicola girata dal regista di Milk è palese e riesce anche nell’intento di denunciare il fatto che, in un momento di crisi globale, ci sono persone che puntano all’interesse complessivo tralasciando e sfruttando il bisogno di sopravvivenza degli altri, ma il punto, che è anche la pecca del lungometraggio, è che questa denuncia viene affrontata in maniera del tutto generica con un colpo di scena che risulta forzato e che ribalta la lettura dell’intero film, basato su una storia dello scrittore statunitense Dave Eggers, in maniera repentina e disarmante in negativo.
Quello che ha la presunzione di essere un lavoro che vuole mostrare l’identità nascosta, la maschera dell’America e delle sue menzogne si rifugia in un qualunquismo ben diretto ma fragile nella scrittura.
La firma di Van Sant è quasi invisibile: vi sono solo le iniziali che ricordano che è lui il regista e che si palesano nella descrizione della periferia americana e nel ritratto di mondi, ambienti e volti che diventano simbolo una purezza etica che gli Stati Uniti, in quanto Terra Promessa, dovrebbero ritrovare. Ma non bastano.