QUALCHE CURIOSITÀ SUL FILM PIÙ CHIACCHIERATO TRA QUELLI CANDIDATI
Sono state moltissime le polemiche innalzatesi alle spalle di Zero Dark Thirty, film diretto dall’ex-moglie di James Cameron, prima donna nella storia ad aver vinto un Oscar come miglior regista, che, dopo aver raccontato i retroscena della guerra in Iraq in The Hurt Locker, con Zero Dark Thirty si concentra sulla caccia all’uomo più seguita degli ultimi anni: quella a Osama Bin Laden. E la racconta con uno sguardo che è femmina, ovvero quello di un’agente della CIA specializzata nella cattura di terroristi e interpretata da Jessica Chainstain.
Zero Dark Thirty, termine tratto dal gergo militare che sta ad indicare, come spiega la regista Kathryn Bigelow, “trenta minuti dopo la mezzanotte”, è quel lasso di tempo avvolto nel buio della notte che consente di attaccare “senza farsi vedere”. Per portare tutto questo sullo schermo, non a caso, sono occorse tecnologie innovative e apparecchi ad alta sensibilità luminosa, così da poter anche in condizioni di scarsa visibilità.
A firmare uno dei lavori più discussi e attesi dell’anno è ancora una volta la coppia formata dalla Bigelow e dal giornalista e sceneggiatore Mark Boal, che dopo The Hurt Locker torna a occuparsi dei temi più delicati e scottanti d’America. Lo stile resta lo stesso: uno sguardo personale (qui affidato a Maya/Jessica Chastain) e una narrazione che marca strettissima i fatti, molto vicina, nel racconto, al video-giornalismo d’inchiesta.
La caccia all’uomo per Osama Bin Laden è durata dieci la regista stessa lo definisce “l’uomo più pericoloso del mondo”, è stato catturato infine, com’è noto, da un gruppo di agenti della CIA. È proprio sul tortuoso quanto avvincente percorso d’indagini per arrivare al famigerato blitz che il film si concentra, indulgendo su retroscena e dettagli anche scabrosi (quelli che a Washington non sono piaciuti affatto) e raccontando in 157 minuti l’intenso lavoro di un team che non si è mai arreso-
La pioggia di polemiche arrivata sul film è stata legata principalmente alle scene di tortura, chiamata nella realtà eufemisticamente tecnica di interrogatorio forzata. C’è chi l’ha definito “il film più moralmente discutibile, ottuso e sopravvalutato” dell’anno, chi ha voluto addirittura inviare una lettera di rimostranze all’attenzione dei vertici della Sony Pictures come hanno fatto tre senatori americani (Dianne Feinstein, John McCain e Carl Levin) definendo il film “grossolanamente non accurato e fuorviante”, e sottolineando come “rappresenti una versione romanzata della verità (…) La CIA non ha appreso l’esistenza del rifugio di Osama Bin Laden utilizzando metodi coercitivi sui prigionieri”. Dal canto suo, la Bigelow ha ribattuto: “Come filmaker avevo la responsabilità di documentare e testimoniare ma Incoraggiamo le persone a vedere il film, prima di farsi un’idea”. Tra le voci amiche a sua difesa è arrivata quella di Michael Moore che ha definito il film una pellicola “contro la tortura: ne mostra solo la feroce brutalità”.
Riuscirà la prima donna vincitrice dell’Oscar per la miglior regia nella storia a battere se stessa dopo che tre anni fa, con The Hurt Locker, portò a casa ben sei statuette? La risposta, sulla carta, è già negativa ma speriamo ancora nella sorpresa.