IL THRILLER DI WOODY ALLEN RISPECCHIA LA SUA DOPPIA ANIMA, INQUIETA E MERAVIGLISAMENTE CINICA
Premetto che non amo l’opera, specie nella sua veste da grande schermo. Ma l’impresa con cui Woody Allen si rimette in gioco è la sublimazione cinematografica di un atto teatrale elegante e raffinato, contemporaneo è al tempo stesso eternamente antico. Prendendo spunto dalla Carmen di Bizet e dall’opera drammaturgica italiana, sottolineata da un’accurata ed incalzante scelta musicale, Allen concede nuove prospettive alla sua lunghissima carriera, allontanandosi dagli standard della commedia che l’hanno reso famoso.
Lontano da casa, l’amata New York, Allen per il suo trentacinquesimo film da regista, il secondo consecutivo solo dietro la macchina da presa dopo “Melinda e Melinda”, sterza bruscamente, passando da una comicità fatta di dialoghi pungenti, alla tragedia rivista in chiave espressivamente visiva. Niente è così esplicativo quanto il titolo, che richiama al punto (tennistico) in un’intensa tragica partita sentimentale. Dove l’amore è sacrificato per la menzogna e l’agiatezza di routine.
Chris Wilton (glaciale nel suo fascino distaccato, l’irlandese Jonathan Ryes-Myers), preparato maestro di tennis nei circoli altolocati, incontra il ricco Tom, che gli presenta la sorella Chloe, introducendolo ai piani alti della borghesia londinese. La turbolenta entrata di Nola (una Scarlett Johansson, a cui dona il bianco, davvero troppo seducente), nella sua vita divenuta ormai una scalata sociale, provoca in lui un desiderio incontrollabile. Fino a quando, costretto a scegliere tra la passione e la tranquilla sicurezza domestica, sarà portato a compiere la più subdola delle azioni.
“Bisogna imparare a nascondere lo sporco sotto al tappeto – afferma Chris – altrimenti se ne viene travolti”. E’ il preludio all’imprevedibilità dell’agire umano, implicato in mille sfaccettature, nessuna mai uguale all’altra. L’impatto emotivo che la pellicola ha immediatamente sullo spettatore denota la volontà di Woody di ricercare nella complessità dell’animo umano ogni possibile sfumatura, ora variando i temi sul dilemma, ora sull’inganno, per vedere sino a che punto un uomo si può spingere nelle sue convinzioni ed accettare le conseguenze delle proprie azioni.
Il ritmo serrato e l’alone di malessere con cui i protagonisti sono costretti a convivere è ciò per cui “Match Point” può accostarsi ad un’opera enfatica, dove l’intreccio narrativo passa in secondo piano rispetto all’eleganza estetica delle immagini. In particolare nel soffermarsi spesso sulle inquadrature dei volti e della città, entrambi componenti cardine del racconto ed espressione della comunicabilità del regista.
“Match Point” è un film che scorre liscio nelle sue due ore, analizzando nel profondo la psicologia dei protagonisti, in particolare di Chris, il quale incarna le convinzioni di una società in cui viviamo e di cui, se inaspettatamente privi, siamo pronti a difendere la spontaneità, anche irrazionalmente. In questo suo ultimo lavoro, Allen ritrova la verve di un tempo e, passando dal noir sofisticato al dramma, confeziona un piccolo gioiello che non annoia mai e che nel finale pone il pubblico su un piano emotivamente critico, senza lasciargli il tempo di ottenere in compenso una motivazione.
“Match Point” ammalia per la sua storia improvvisamente vera e per la sua visione caustica dello scorrer del tempo, dove la fortuna di Chris si mescola ai fantasmi del rimorso, un insieme che non disturba affatto il settantenne occhialuto regista, anzi rappresenta la dimostrazione che è capace di sorprenderci ancora.