Nostalghia: retro-recensione film

IL VIAGGIO ITALIANO DI TARKOVSKIJ DIVENTA EQUAZIONE ESEMPLARE DELLA SOLITUDINE ASSOLUTA 

Il poeta russo Andrej Gortčakov si trova nel paese italiano in cui visse un musicista settecentesco suo connazionale, del quale egli intende scrivere la biografia. Instaura un legame con la traduttrice Eugenia, ma il pensiero della patria e della moglie lontana lo tormenta. Nel suo penultimo film, il maestro del cinema sovietico Andrej Tarkovskij condensa in forma dolente e straziata gli archetipi estetici e filosofici del suo cinema e di una poetica da sempre vicinissima all’uomo e alla sua intima essenza.

La disperazione derivante da una sessualità frustrata ma soprattutto dalla sua drammatica condizione di esule (elemento autobiografico estremizzato fino all’ingenua tenerezza) spinge il protagonista ad edificare intorno a sé un ambiente che è mentale e psicologico, metafisico e sinistro, in cui l’acqua è al contempo simbolo mariano e freudiano, materno e mortifero.

Una realtà che non è nient’altro che una proiezione, la risposta grafica a un’apocalisse dell’anima: il brullo paesaggio toscano diviene di fatto simile a uno skyline atomico in chiave esistenzialista, con la differenza che però nell’universo di Tarkovskij continua ad abitare una speranza, seppur ormai ridottasi a flebile, languido ed estetizzante sogno di un ombra.

Il cadere della pioggia e le nebbie “termali”, un uomo e un cane dentro scenari depauperati, il rumore sordo e lieve di un ruscello e la luce di una divinità penetrante, che si insinua discreta e silente nella stanza di un uomo che sembra non avere più nemmeno la forza di alzarsi da quelle lenzuola sulle quali giace capovolto. Lo “spleen” annega in una “cupio dissolvi” definitiva, le suggestioni frequenti lasciano filtrare lampi bergmaniani, il contributo di Tonino Guerra alla sceneggiatura dà luogo squarci sì felliniani ma privi di brio grottesco, condannati al grigiore di un viaggio al termine di una notte eterna e inaccessibile.

Equazione della solitudine assoluta, posa ieratica in cui il contatto col sacro è innestato nelle lande desolate di un’uggiosa campagna toscana, rupestre e scarna. “Nostalghia” è una storia d’amicizia e follia, d’eros sopito e di voti da compiere, la personale e accorata presa di coscienza di una lontananza incolmabile. Un film terminale, pieno di bellezza annegata nel dolore, seducente e decadente. Il punto di compimento di una filmografia e di uno sguardo unici nella storia del cinema, che si reiterano concedendosi come un’ultima volta prima della fine, prima del testamento finale che sarà “Sacrificio”.

Il senso di “nostalghia” non si sente, si vive, la si lascia penetrare dolcemente dentro se stessi come una scheggia nelle carni, un’elegia letale ma melliflua, ostile all’ateismo della secolarizzazione e vicinissima a uno spiritualismo accogliente e materno, nonostante tutto. Il “rivo strozzato che gorgoglia”, nel cinema di Tarkovskij come nella poesia montaliana, è immagine irrinunciabile e lampante di un’assenza e di un disfacimento siderali. 

Davide Stanzione

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