DIARIO DI UNA CRITICA PER CASO E IMMAGINI DAL RED CARPET
La partenza non è stata delle più traumatiche i voli dopo mezzogiorno sono quelli più comodi e ritrovarsi il Ministro per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo sullo stesso tuo aereo low cost ti da la sensazione che qualcosa è cambiato o, in alternativa, quella che è vero allora: siamo messi proprio male.
Massimo Bray ha volato con me, solo, senza segretari e senza scorta me ne sono accorta proprio quando, arrabbiata nera perché la Easy jet mi aveva appena rubato cento euro e imbarcato una valigia che rispettava rigorosamente, metro alla mano, tutti i suoi canoni. Mi sono anche chiesta se pure lui, come me, aveva avuto la stessa sfortuna e se anche lui, come me, da quel momento in poi si sarebbe ritrovato con un budget di dieci euro in meno per sopravvivere nella carissima Cannes ma poi mi sono risposta da sola: le cose sono cambiate, ma non così tanto.
Sbarcata a Nizza è stata immediata la sensazione che, per quanto riguarda la disorganizzazione, tutto il mondo è paese: un’ora e mezza di attesa per la navetta che mi avrebbe portato sulla tanto immaginata Croisette e ovviamente la prima era troppo piena perché con me l’aspettavano un altro centinaio di persone ma la seconda è arrivata dopo poco e mi ha portato, nei 40 minuti stimati, dove volevo, dove sognavo, dove avrei trascorso i dieci giorni seguenti.
Pioggia, vento e film sono stati i protagonisti principali di quasi tutta la prima settimana della mia kermesse francese e di quella di molti altri.
È stata la mia prima esperienza a Cannes e per questo l’accredito stampa che portavo al collo, che la sicurezza vivisezionava a ogni passaggio per poi perquisire la mia borsa e farmi passare attraverso un metal detector ogni sacrosanta volta che entravo al Palais, era quello del terzo stato della Stampa, per dirla come ai tempi della Rivoluzione francese, ed era, quindi, portatore sano di interminabili file soprattutto per i film di registi americani e locali.
I primi giorni sono rimasta, spesso e volentieri, fuori alla sala poi ho capito: andare un paio d’ore prima, anche tre, in fila e sedersi a terra e scrivere lì gli articoli era l’unica soluzione possibile per essere certi di portare a casa il lavoro.
Cannes, Francia. No, non siamo in Italia eppure è proprio lì che un uomo, con una pistola a salve, ha sparato sulla folla facendo scappare tutti ed è lì che il vento ha fatto andare in mille pezzi un ombrellone che ha colpito in testa una giornalista italica la quale, sanguinante, è andata a chiedere in un bar un po’ di alcool per sentirsi rispondere: lo diamo solo ai clienti.
Mal comune mezzo gaudio? No, in questo caso, in questo caso è palese solo il fatto che non siamo i soli a essere in difetto di civiltà.
Ho dormito per dodici giorni in un appartamento minuscolo con altri tre colleghi, il luogo caldo e sicuro dopo una giornata stancante, il luogo dove si chiacchierava e si mangiavano baguette al tacchino quando l’ultima proiezione del giorno era alle 22 e mancava anche la forza per trovare un locale dove mettere qualcosa sotto i denti. Un luogo sicuro, sì, fino a quando, l’unico pomeriggio in cui ho avuto il tempo di fare una doccia sono stata derubata: un Ipad, non mio, un paio di scarpe, mie, un paio di occhiali da sole, un carica batterie, due ero… poteva andare peggio è la magra consolazione.
Però poi ci sono state anche le feste, un paio di feste quelle dei film italiani quella di Miele dove Le Vibrazioni hanno fatto un mini concerto e quella de La grande bellezza che sembrava essere la versione ancora più triste dei party raccontati dal film di Sorrentino e pensare che la gente invitata era fatta dello stesso nulla di quelli che lui nel suo film addita nella meraviglia dei piano sequenza.
Ma Cannes è Cannes e la ami lo stesso perché i film sono tutti belli, perché magari mentre scrivi per terra sotto quel raro sole vieni calpestata da Jessica Chastain, perché incontri Wim Wenders e gli fai due o tre domande, perché è questo il lavoro che ami.
C’è un mondo al di sopra di Croisette e Red Carpet fatto di ragazzi (se ancora così ci possiamo chiamare) che per meno di due spicci ma forti di un senso del dovere che sposta le montagne affrontano intemperie, file di ore, uffici stampa indegni per portare a casa il lavoro. Ragazzi che dormono in 4 in una stanza di forse 15 metri quadri, qualcuno per terra, che per fumare una sigaretta si siedono a gambe incrociate all’angolo di una terrazza con computer addosso per non perdere tempo e continuare a scrivere. Ragazzi che vanno a letto quando è già giorno per non rimanere indietro e divertirsi anche un po’, ragazzi che, qualunque ora sia, prima di addormentarsi pianificano il giorno dopo per non dimenticarsi nulla. Fisicamente al di sopra dello struscio giornaliero di fianco al mare perché eravamo al terzo piano del palazzo del Festival ci siamo noi: stanchi, sorridenti con caffè gratis e acqua sempre a portata di mano.
Cannes siamo noi, quelli vestiti a caso con occhiali scuri, e nel mio caso graduati, che coprono occhiaie e occhi stanchi e felici.
Chi non capisce questo, chi non capisce che il Festival è là su non lì giù, non ha capito nulla del senso di questo mestiere. È dall’alto che si racconta, da dove la visuale è completa.
S.M.