LA REDAZIONE SI CONFRONTA SULL’ULTIMA OPERA DI J.J. ABRAMS
Arriva finalmente nelle sale il secondo reboot firmato J.J. Abrams, sua rilettura della saga di Star Trek.
Con Into Darkness ci ritroviamo ancora una volta catapultati all’interno dell’Enterprise e stavolta nel bel mezzo di una crisi che porterà il Capitano Kirk a fare i conti sia con un conflitto personale sia con un’estenuante caccia all’uomo che metterà a dura prova i rapporti umani all’interno dell’equipaggio.
La redazione ha visto il film in anteprima e ora si confronta.
MANTIENE INTATTO LO STILE DEL REGISTA?
SIMONE BRACCI: Senza ombra di dubbio possiamo ormai dire che il marchio Abrams, accompagnato dal suo team di affidabili sceneggiatori sia riconoscibilissimo. Con Super8 si è raggiunto l’apice di questa firma audiovisiva, ma in questo secondo Star Trek la mano è un po’ incerta, segue la spettacolarità a tutti i costi, perdendo un po’ di vista la costruzione dei personaggi e il duello antitetico che ne consegue. Si viaggia di fantasia, ma le emozioni restano relegate sul fondo, come a dire JJ c’è, ma oltre a Spielberg si ricordi che nel mondo della fantascienza dovrebbe citare anche un po’ il maestro Lang.
SANDRA MARTONE: Lo stile non solo è intatto ma è anche spinto all’ennesima potenza. La parte più stupefacente sta tutta nei 40 minuti finali dove sparisce la sceneggiatura e l’immagine diventa padrona dello schermo e degli occhi degli spettatori. Se Super8 è stato un capolavoro ma anche una dichiarazione d’amore a Spielberg Star Trek è una dichiarazione d’amore alle moderne tecnologie del cinema che non pesa mai. Dal mio punto di vista un buon regista non dovrebbe citare nessuno se non se stesso e J.J. in questo lavoro lo fa rendendo un film di due ore e passa talmente dinamico e stupefacente da non essere pesante o risultare prolisso. In pochi ci riescono e lui è tra questi.
STRIZZA L’OCCHIO ALLA SERIE TELEVISIVA O AFFRONTA LA STORIA IN MANIERA INEDITA?
SB: In qualche modo ne prende spunto, amplificando il concetto di serialità da singolo episodio e arricchendo la storia di contenuti da lungometraggio. C’è molta dell’ironia e dei messaggi veicolati in tv, ma manca la connessione logica con taluni avvenimenti. La parte forte rimane il rapporto dell’equipaggio e il duetto di Kirk con Spock, certo visto più in versione eterni Peter Pan più che comandante (e suo vice) di flotta. Gli altri, salvo il mastodontico Khan, sono accessori.
SM: Dirò una bestemmia: non sono mai stata una grande fan della saga di Star Trek. Per qualche motivo non l’ho mai amata. Ho visto alcuni episodi, certo, ma non mi sono mai appassionata alle sue avventure. Sono però una grandissima sostenitrice della rilettura moderna che Abrams ha fatto, con non poco coraggio, di quello che è stata per anni una serie intoccabile. Abrams ha contemporaneizzato e reso ancora più futuro il futuro prossimo immaginando la gioventù di personaggi entrati in un certo modo nell’immaginario comune e raccontandoci il loro passato senza rovinare o invadere il ricordo di uno show amatissimo. Se non è genio questo…
A CHE TIPO DI PUBBLICO MIRA?
SB: Sappiamo bene che raggiungerà il pianeta massa, ovvero più persone possibile così come sta facendo. Ma per il salto di qualità che aspettavamo rispetto al primo esaltante episodio, questo sequel è un salto nello spazio remoto senza propulsore emotivo, quel necessario collante tra azione e sentimento che distingue un prodotto medio da un film eccellente.
SM: Questo è un prodotto mainstream che raggiungerà il pubblico mainstream e premetto che in questa parola non ci vedo niente di male, anzi. Il salto di qualità con il primo episodio c’è stato e le aspettative non le ha deluse affatto. Abrams ha la capacità rara di mettere l’emozione nelle immagini, nell’azione stessa. Non gli servono collanti: Abrams è eccellenza ed è sicuramente il miglior regista di genere che Hollywood vanta.