Pesaro 49 – Kayan: recensione

UNA DONNA FORTE E UNA FIDUCIA SPEZZATA AL CENTRO DELL’OPERA PRIMA DELL’IRANIANA MARYAM NAJAFI

Ci sono esistenze intere che affollano i ristoranti ed è su quelle vite che passano molto del loro tempo Kayan (in arabo libanese, non a caso, “esistenza”) ha deciso di girare il suo lungometraggio la regista iraniana Maryam Najafi.

Siamo a Vancouver ma questo è solo un dettaglio perché al Kayan sembra di stare in un tipico locale orientale. Il ristorante è gestito da Hanin (Oula Hamadeh) una donna divorziata con due figlie che mantiene loro, se stessa e la sua attività da sola. Una giovane voce, che non avrà mai un volto ma che sappiamo essere quella del suo compagno, è la coprotagonista di questa storia di fiducia spezzata che vede al centro Hanin e che si ramifica in altri piccoli racconti che sono quelli delle persone che frequentano abitualmente il posto.

Girato senza attori professionisti Kayan è nato filmando i reali clienti del locale e creando dagli attimi di vita loro rubati una storia semplice, femminista e dal finale doloroso. Il film è retto quasi totalmente dalla Hamadeh che però, nonostante la sua bravura incredibile per un’esordiente, non riesce a creare un’intesa col pubblico che si ritrova nella condizione di essere quasi forzato a spiare dettagli di altrui momenti senza volerlo.

La narrazione è fragile, sia la storia centrale che quelle che nascono intorno ad essa non hanno uno spessore sufficiente a mantenere viva l’attenzione di chi le guarda, ma il lungometraggio ha dalla sua una coerenza stilistica che lo priva di inutili abbellimenti registici facili da usare in questi casi ma poche volte funzionali a ciò che accade.

L’esordio di Najafi quindi non è sbagliato per come viene gestito dalla giovane cineasta, che forse anche date le sue origine ha deciso di portare sul grande schermo un’opera che ha al centro di tutto una figura femminile fisicamente e umanamente potente, ma è sbagliato per la fragilità di ciò che racconta.

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