Locarno 66 – Pays Barbare: recensione film (concorso internazionale)

UN SALTO INDIETRO NEL TEMPO AL COLONIALISMO DI MUSSOLINI

Un’indagine su cosa voglia dire razzismo, colonialismo, discriminazione, tornando indietro nel tempo per ricordare quanto male queste abbiano fatto all’umanità e quanto ne potrebbero ancora fare oggi che il neocolonialismo ha preso piede. Questo il motivo di fondo che ha spinto i registi Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi a girare Pays barbare, un’opera che non può essere definita né un film né un documentario. È nel mezzo, ę una sorta di reportage, ricostruito attraverso rare immagini di repertorio, su ciò che avvenne all’epoca del colonialismo italiano nei paesi africani, ad opera di Mussolini.

I due artisti sono andati a scavare negli archivi cinematografici privati sequenze, filmati, foto della conquista italiana alla volta dell’Abissinia, durante gli anni 20′ e ’30. La particolarità delle immagini colpisce tanto quanto ciò che documentano, ovvero la crudeltà degli aggressori, l’egoistica e supponente supremazia del popolo italiano, la noncuranza con la quale gli aborigeni venivano visti come animali invece che esseri umani al loro pari. L’impatto delle scene viene reso ancor più forte dal canto straziante che accompagna il racconto visivo: un pianto doloroso e commovente, una rassegnazione al fatto che il più forte e ricco predomina ma anche un piccolo, e forse inutile, tentativo di sperare che attraverso la conoscenza ciò potrebbe cessare di accadere.

È un importante messaggio quello che i due autori vogliono lanciare, un voler rievocare il detto historia magistra vitae in un momento in cui, nella società attuale, la mancanza di valori e di insegnamenti viene colmata dalle nuove generazioni con la violenza e la predominanza di chi sa che la sopravvivenza è dei più forti.

Il docufilm si apre con la fine, si apre con le immagini di Piazzale Loreto quasi a voler ricordare che a volte, anche se in rari casi, la storia non perdona.

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