Gli Universitari di Federico Moccia

“MENTRE STAVO A LA SAPIENZA E GIRAVO SONO STATO CONTESTATO. A NANNI MORETTI NON SAREBBE SUCCESSO”

Dall’adolescenza all’universo degli Universitari: è questo il salto generazionale che Federico Moccia ha fatto. Dopo una serie di film tratti dai suoi romanzi e, a volte, da lui girati il cineasta, autore e scrittore cambia target e prova a raccontare la fase successiva della vita.

Federico, in questi anni la abbiamo sempre vista alle prese con liceali, come mai hai sentito la necessità di raccontare il mondo degli universitari?

Perché volevo raccontare una fase successiva della vita, dopo il primo grande amore, e la prima relazione, caratterizzata dalla differenza d’età, è stato naturale passare ai ventenni. Sono partito da una riflessione fatta sul libro che stavo scrivendo e sono tornato con la memoria ai tempi della mia università. Ho fatto sedici esami a Legge. Ricordo che il momento più bello era andare a casa dei fuori sede, dove si festeggiava sempre, era un mondo molto diverso specialmente per chi, come me, tornava nella propria casa, dalla propria famiglia. Credo di aver trovato un pretesto giusto per fare un buon film, con tanti caratteri diversi. In fondo il senso del film è che tutti loro trovano in quel microcosmo una famiglia che spesso non hanno avuto nella realtà.

Pensa che ci sia un filo rosso che lega i personaggi dei tuoi film?

Sì e no. Nessuno dei protagonisti di Universitari è come Step, ma certamente hanno vissuto le stesse esperienze dei ragazzi di Tre metri sopra il cielo.

Che tipo di differenze ha trovato nel rapporto tra giovani e università rispetto alla sua gioventù?

È cambiato tutto, allora c’era una maggiore aspettativa su quello che poteva darti l’Università. Oggi questa società ha perso credibilità, ha perso la magia, i ragazzi non hanno più qualcosa in cui credere. Questo aspetto non lo tocchiamo direttamente, però, siamo maggiormente concentrati sui caratteri dei personaggi, sulle loro peculiarità.

Non teme forse di averli astratti troppo dal contesto reale? Nella sequenza in cui il personaggio interpretato da Primo Reggiani contesta i baroni, l’approccio è molto ironico, quasi non volessi dare peso alla protesta in sé…

In realtà volevo mostrare come la televisione non sia in grado di dare voce alle istanze della gente, perché il servizio del telegiornale in cui Alessandro parla viene poi tagliato. L’idea della scena mi è venuta vedendo una puntata di Santoro in cui un ragazzo si faceva portavoce di una protesta di studenti; era molto preso dalla discussione e non sempre ha avuto una chiarezza di esposizione, così, ingenuamente, quando il giornalista ha allontanato il microfono, si è girato verso gli altri chiedendo a più riprese come fosse andato. Mi è sembrato insomma che non si preoccupasse di quello che stava dicendo, ma del suo modo di apparire.

E accade spesso?

Mentre giravamo alla Sapienza sono stato contestato. L’ho considerato una mancanza da parte di ragazzi che avrebbero dovuto prendere di mira altre cose, preoccuparsi per obiettivi più importanti di un gruppo di persone che stavano facendo il proprio lavoro. Spero che le contestazioni si facciano per raggiungere qualcosa, a volte mi sembra di no, a volte sono ridicole. Mi sembra che in certi casi si siano perse le ragioni della contestazioni. Se c’è una ragione valida, allora è utile avere un movimento ed è un bene se si riesce ad ottenere qualcosa attraverso la protesta. Mi dispiace quando la contestazione non è fondata, a volte si partecipa ad una manifestazione perché ti piace una ragazza, non perché la si comprenda fino in fondo.

Cosa dovrebbero contestare allora? Quanto oltre dovrebbero andare?

Sono talmente tante le cose per cui protestare davvero, il lavoro, la precarietà, gli investimenti delle università, non certo per la presenza di un regista che sta girando. Forse Nanni Moretti non lo avrebbero contestato, lo avrebbero rispettato.

Quanto c’è di autobiografico in Carlo, il ragazzo che sogna di diventare regista? Sul muro della sua stanza si vede il poster di Attila Flagello di Dio, il film diretto da suo padre che ha anche segnato il tuo debutto…

Avevo 19 anni e il desiderio di raccontare qualcosa per immagini. Allora vi dico che il premio che si vede in alcune sequenze, quello che rende Carlo tanto orgoglioso è il vero premio Pipolo che viene assegnato a chi realizza un cortometraggio. Che dire, la sceneggiatura racconta qualcosa che conosco bene, ma mio padre, a differenza di quello di Carlo, non è scappato in Argentina, ho due sorelle normali e una madre non casinista. Mi piaceva, però, la voglia di osservare che possiede questo ragazzo, è un aspetto che mi appartiene. Diciamo che mi è piaciuto raccontare la grande solitudine di questi ragazzi; non credete a chi vuole generalizzare sui giovani, è impossibile. Ci sono ventenni poco maturi e altri che invece sono cresciuti in fretta.

Ha timore che questo film possa spiazzare gli spettatori che hanno amato i tuoi lavori precedenti, indirizzandosi a un target diverso?

Non faccio film in base al target, ma seguendo il mio istinto. Volevo trovare una storia e il modo appropriato per raccontarla, e forse questo è il momento giusto. Il mio è un film che può essere trasversale, perché racconta di rapporti diversi, di una voglia positiva di fare gruppo, di trasformare le difficoltà in opportunità.

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