Venezia 70: Gianfranco Rosi e il suo Sacro Gra

“SACRO È IL MISTERO DEL LUOGO CHE RACCONTO E DEI PERSONAGGI CHE CI VIVONO”

Il terzo e ultimo film italiano presentato in concorso alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è Santo Gra di Gianfranco Rosi che, tra i titoli nostrani, è sicuramente quello che stuzzicava di più la curiosità del pubblico.

Il racconto di vite accomunate dalla lunga strada circolare che abbraccia Roma è stato accolto da pubblico e critica con calore e sorpresa:

Rosi, l’idea di Sacro GRA, di questa esplorazione, nasce in realtà dal paesaggista-urbanista Niccolò Bassetti. Come si è avvicinato a questo progetto ?

Nicolini parlava del GRA come di una macchina celibe che ha la sua ragione d’essere nel nascondere le contraddizioni della città. Il raccordo anulare rappresenta il mito perduto del boom degli anni sessanta, un luogo agorafobico dove ci si perde. Girando, nel senso fisico del termine, e incontrando storie mi sono innamorato.

Cosa aveva intenzione di far emergere dai personaggi che racconta?

La poesia che, sia chiaro, non appartiene al mio sguardo, ma al modo con il quale loro rappresentano se stessi. Si sono continuamente messi in gioco, dimenticandosi che noi li stessimo riprendendo. Come diceva Eschilo sono attori che recitano senza sapere di recitare.

È un momento che in Italia si producono molti documentari. Le che da anni gira come si spiega questo boom? C’è bisogno di una distinzione netta tra realtà e fantasia?

Personalmente non ho mai considerato che ci fosse una divisione radicale tra i generi. Io giro documentari non per una scelta ideologica ma perché credo che ogni storia abbia il suo modo per essere raccontata. La vera distinzione, semmai, è tra vero e falso. Distinzione che è presente in ogni forma di arte.

Il documentarista sente la responsabilità di usare immagini autentiche?

La responsabilità esiste sempre quando il proprio lavoro è consegnato ad altri. Il percorso che sto intraprendendo da tutta una carriera è spingere sempre più avanti la barriera tra documentario e fiction. La mia è stata una scelta narrativa: raccontare il più possibile attraverso la sottrazione. La forza del documentario è la sperimentazione, senza di essa il documentario muore. Bisogna coltivare e spingere al massimo l’estrema libertà che questo modo di raccontare ci permette di avere.

Il suo film, finalmente, racconta un’Italia diversa, non per forza ghettizzata nella crisi economica o di ideali…

La mia prima intenzione era uscire fuori da qualsiasi canone, di evitare il già raccontato. Io sento che il nostro paese, più che una crisi economica – quelle ci sono ogni dieci anni -, stia vivendo una tragica crisi di identità. Io ho cercato, con i miei personaggi, un’umanità fortissima che potesse raccontare la loro storia e staccare Roma dal pantano in cui si trova. Molti mi dicono che Roma è una città in crisi, mummificata. Il GRA, invece, è un luogo dove c’è vita, uno spazio ideale dove ogni futuro è possibile. Solo in quei luoghi si può trovare un potenziale enorme, si può avere il pretesto di raccontare qualcosa di altro.

Il titolo del film è solo un gioco di parole o ha trovato veramente qualcosa di sacro nel GRA?

Io ho ricevuto il progetto con questo titolo. Certo, lo abbiamo considerato un working-title, visto che io ho sempre trovato il titolo a film concluso. Durante la lavorazione lo abbiamo anche messo in crisi, ma Sacro GRA, alla fine, è sempre sembrato il nome più adatto alle storie che il film raccontava. Sacro, alla fine, è il mistero di questo luogo e dei personaggi che ci vivono.

 

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