Venezia 70 – Parkland: incontro con Peter Landseman

“PARKLAND E’ UN POSTO METAFISICO DOVE I SOGNI MUOIONO”

Non è stata certo calorosa l’accoglienza di Parkland, opera prima di Peter Landseman in concorso, in quel del Lido di Venezia.

Il lungometraggio, che è il racconto di tre giorni neri per gli Stati Uniti d’America e che si aprono con l’omicidio del Presidente Kennedy, dà nuovi punti di vista molto lontani da qualsiasi teoria complottistica, su ciò che accadde usando come protagonisti alcune persone che sono state toccate molto da vicino dal terribile assassinio, non solo perché presenti.

Dal film emerge una forte vena nazionalista palesata nella ricostruzione del dolore sentito del popolo americano e nel disinteresse totale di usare, ancora una volta, questo triste capitolo di storia come oggetto di ipotetiche congetture.

Landseman, i particolari sull’omicidio di Kennedy sono noti a tutti ma nonostante questo la sua sembra una storia inedita. Come ci è riuscito?

Negli ultimi cinquanta anni ci sono state molte speculazioni sull’attentato di Dallas. Il mio intento era trovare un nuovo punto di vista, parlare delle persone comuni legate a quella vicenda. Da giornalista ho frequentato molte zone di guerra e ho vissuto la New York dell’11 settembre. Ho visto come le persone, nei momenti di crisi, si comportano eroicamente. Volevo mostrare quello stesso coraggio legato alla morte del Presidente.

Nel film ci sono moltissimi personaggi reali, rimasti in ombra in questi anni. Perché li ha voluti “riscoprire”?

Quando si parla dell’attentato, sembra strano, ma c’è molta ignoranza tra la gente comune. Lo stesso Tom Hanks, co-produttore del film, ignorava che Lee Oswald avesse un fratello. L’obiettivo era ricreare un tessuto emotio intorno alla storia e mostrare la vita e le emozioni di questi personaggi comuni.

Quali sono state le fonti del film? Qual è stato il vostro rapporto con il video di Zapruder?

Esistono moltissime trascrizioni dei dialoghi tra le guardie del corpo, gli agenti segreti o tra i fratelli Oswald. Sono tutte testimonianze disponibili ai ricercatori. Nel film poi abbiamo usato il vero video di Zapruder grazie alla fiducia della sua famiglia. Il video, forse, è uno dei più famosi della storia. Io però volevo mostrarlo in un modo diverso. Ecco perchè, ad esempio, lo vediamo riflesso sugli occhialli di Paul Giamatti. Penso che visto cosi, in modo espressionista, abbia molta più forza. Nel film il sangue ha un’importanza fondamentale… Sono molto contento che l’abbiate notato. Quando si riceve un colpo alla testa come quello che ha ucciso Kennedy, si perde moltissimo sangue, quindi non ho esagerato niente. Certo ho voluto enfatizzare il suo significato. Nella sala operatoria tutti nuotano nel sangue perchè tutti noi, in qualche modo, siamo coinvolti nella sua morte. Il suo sangue macchia le mani di tutti.

Il titolo Parkland è una metafora degli Stati Uniti?

E’ divertente che me lo chiediate perchè questa è una domanda che ci siamo ripetuti spesso durante le riprese. Avrei potuto intitolarlo The Hospital ma già scrivendo lo script notavo come Parkland diventasse un luogo mentale, un posto metafisico dove i sogni muoiono. Come nella Chinatown del film di Polanski, a Parkland ci si viene per morire.

Perchè avete tagliato il personaggio di Jack Ruby, l’assassino di Oswald?

La storia di Dalllas è una specie di piovra, ogni tentacolo meriterebbe un film a parte. Ruby è un personaggio assurdo, affascinante ma nel film siamo stati costretti a fare determinate scelte narrative.

Come mai il film finisce con il funerale di Oswald?

I protagonisti di Parkland sono degli uomini comuni e Robert Oswald ne è il simbolo perfetto. E’ un uomo onesto, con un lavoro e una famiglia. Una mattina di novembre, però, il suo mondo cade a pezzi quando scopre che suo fratello è il Diavolo. Potrebbe succedere a chiunque di noi. Lui però affronta la vicenda con dolore e dignità. Con lui rappresento una realta profonda, un pathos shakesperiano, se mi passato il paragone. Anche per l’interpretazione magnifica di James Badge Dale ho ritenuto giusto che il film finisse su di lui.

 

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