Venezia 70 – Une promesse: recensione film (fuori concorso)

LACONTE DIRIGE UN RACCONTO TANTO BANALE DA SEMBRARE UN MONTATO DI DEJA VU’

Il più classico dei triangoli: Lui, Lei e l’Altro dove Lui è un anziano abbiente e malato, Lei una giovane donna e l’Altro un belloccio, ovviamente amico e dipendente nel lavoro di Lui che, inetto, come un padre lo aiuta nella carriera e gli apre la porta della sua casa.

Lo svolgimento di una storia del genere può prendere una delle seguenti strade a scelta: Lui ha preso l’Altro in casa per assicurare un futuro a sua moglie e a suo figlio una volta che morirà; Lui non sa e quando scopre il fattaccio manda lontano l’Altro per spezzare la storia con Lei; Lui, sempre perché malato, cerca di fare l’altruista decidendo di far unire Lei e l’Altro ma non ce la fa e quindi manda lontano l’Altro.

Quale di queste strade narrative sia quella di Une promesse, melò in costume diretto da Patrice Leconte, non sarà certo svelato in codesta sede dove ci si limiterà a dire che stavolta il cineasta francese ha davvero sbagliato tutto, o quasi.

Tratto da una novella di Stefan Zeig, l’ultimo lungometraggio di Loconte sembra essersi più che altro ispirato a un Soft Harmony di quelli da anni parcheggiati in qualche espositore di un qualunque giornalaio e, come se non bastasse la pochezza del soggetto e della conseguente sceneggiatura, un attore su tre è sbagliato: non si adirino i fan di Games of thrones ma in un drammone ambientato agli inizi del 900’, e che vorrebbe ricostruire in maniera veritiera quell’epoca, la faccia da serie tv di Richard Madden è totalmente anacronistica, per non parlare della sua capacità artistica che già nella fiction non ha fatto troppo rimpiangere la sua scomparsa, mentre in questo lungometraggio l’ha agognata. Fortunatamente ci pensa una brava Rebecca Hall a tirare su un cast composto anche dall’imbalsamato Alan Rickman.

La buona regia di Laconte, che comunque permane anche in questo lavoro rendendolo perlomeno elegante, non riesce a salvare mai il lungometraggio per colpa, oltre della già maltrattata sceneggiatura, anche della totale mancanza di empatia tra i due attori protagonisti che nel loro cercarsi sospirato non riescono mai a far trapelare passione o qualsiasi altro tipo di sensazione che non sia noia: la tensione sessuale che in un film del genere dovrebbe essere palpabile qui manca totalmente.

Non c’è niente, o quasi, di giusto in questo film tutto da rifare e che avrebbe potuto salvarsi forse solo se nella scena dove i due amanti sono a teatro, la Hall si fosse lasciata andare in una citazione di Pretty Woman urlando “Mi si sono attorcigliate le budella”: almeno in una pellicola, che sembra essere un montato di deja vù per la sua banalità, ci sarebbe stato qualcosa di inaspettato e non sarebbe tutto proseguito lento per sfociare, anche nella scena finale, nella più perfetta e plateale monotonia.

 

 

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