Gravity: il capolavoro sulla (ri)nascita della vita

ALFONO CUARÓN ATTRAVERSO LE STELLE PARLA DELLA POTENZA DELLA VITA

Il momento in cui veniamo fuori dall’ovattata oscurità che ci avvolge per nove mesi è qualcosa che va al di là di ogni concezione teorica e spirituale; la nascita, intesa come luce, esistenza e vita, è l’inderogabile inizio del nostro Io, da li in avanti il cammino sarà una continua rivelazione, rimanendo abbagliati dalle scoperte, continueremo a cercare la bellezza e un ipotetica rinascita dai momenti bui. La storia antropologica ha da sempre trattato l’argomento con enormi vedute; fin dalla preistoria gli uomini raffiguravano l’atto del parto sui muri delle caverne, la fertilità poi ha avuto un ruolo chiave nelle civiltà mesopotamiche: era venerata, invocata e rappresentata. Nell’antico Egitto la divinità della maternità era Iside, ritratta come una donna da una lunga tunica e spesso dipinta sui sarcofagi per condurre a nuova vita i defunti. Senza continuare con l’infinità di riferimenti storici legati alla nascita, possiamo affermare che l’arte ha subito, ovviamente, una forte ispirazione per quanto riguarda la metabolizzazione e l’iconicità del parto.

Il cinema, nello specifico, è costipato di richiami, citazioni, dediche, sfumature legate alla magia di venire alla luce. Se pensiamo a Il Settimo Sigillo, Il Re Leone, Juno e The Tree of Life il comun denominatore che li lega è sicuramente la vita, intesa nella sua purezza, delineata per mezzo delle emozioni e delle immagini. Ma, se cerchiamo un’opera che contenga in se l’irrazionalità della gestazione, le metafore semiotiche celate dietro il grembo materno e le opportunità che ci regala la vita, dobbiamo vedere, assimilare e contemplare Gravity, l’ultimo film di Alfonso Cuarón.

Il regista messicano sembra essere molto legato al tema; già ne I Figli degli Uomini aveva pregato e sperato in un domani nuovo, grazie all’avvento miracoloso di una nuova piccola vita. Ma il genio umano e vitale del regista messicano viene fuori, per l’appunto, con Gravity, ambientato nel silenzio infinito del cosmo. La bellezza del film sta infatti nei significati nascosti tra le stelle: l’universo è a tutti gli effetti il nostro utero, siamo nati lì sù, tra ammassi gassosi, esplosioni, super nove e buio totale. La pellicola non parla solo di due astronauti che si sono persi, anzi. L’apoteosi della perfezione viene fuori scena dopo scena, quando capiamo che la protagonista del film è ritratta in tutti i passaggi che scandiscono una gravidanza. Lei, da un passato drammatico e logorante, resta aggrappata ad una (ri)nascita che la rende forte e nuovamente determinata, gli astri l’assistono nella disperata lotta per la vita, sembra quasi una tartarughina che esce dall’uovo e corre verso l’acqua, con tutta la forza che possiede, cercando di sfuggire ai predatori.

In queste immagini c’è il Pan, c’è Dio fuso nell’universo, la natura potente e dominante, crudele ma allo stesso tempo intrisa di chiarore. Può, un film, fare tutto questo? Può scaraventarci in uno stato di trance psicofisica che si ripercuote nelle nostre vene, gettandoci nuovamente nel grembo materno? Sì, senza rigor di logica, senza teorie e oggettività, Gravity  è, per eccellenza, il film sulla vita, sugli attimi che sillabano il nostro venire alla luce, quando si squarciano le tenembre, quando abbiamo su di noi tutti i brividi del mondo. In quel momento noi siamo il centro nevralgico del cosmo, racchiudiamo le domande e le risposte, abbiamo davanti ai nostri occhi il sentiero che seguiremo con il nostro essere imprescindibilmente noi, puri e vergini dal male che si nasconde dietro l’angolo.

Gravity non è un film, è un teorema universale sull’aurora della vita, vista dall’alto dove il sole riflette magicamente sul Gange e le città sembrano arterie luminose di un sistema nervoso che ci lega gli uni agli altri. Qualcosa di più incantevole non esiste.

 

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