QUANTA SOLITUDINE PER GAEL GARCIA BERNAL CHE PRODUCE UN RACCONTO DI FORTE IMPATTO NARRATIVO
GENERE: drammatico
DURATA: 79′
Secondo film della Trilogia della Solitudine cominciata nel 2010 con Año bisiesto, Manto Acuifero di Michael Rowe – produzione messicana nata dall’incontro del regista australiano (che da venti anni vive in Messico) con Gael Garcia Bernal, che co-produce la pellicola – racconta la storia, con un rigore quasi documentaristico, di una “nuova” famiglia, quella di madre, figlia naturale e patrigno. Apparentemente. Perché in realtà, quei ritmi lenti, quelle scene uguali e ripetute, raccontano una quotidianità che può essere così dura e cattiva da svelare il lato oscuro anche di una creatura innocente come una bambina.
La reazione della stampa alla proiezione è stata piuttosto fredda, perché è una pellicola difficile, intima, cruda. Realismo emotivo: questo l’obiettivo di Rowe, centrato grazie a scelte registiche coraggiose, come l’assenza della musica, movimenti di macchina che non strizzano l’occhio allo spettatore e non enfatizzano emotività per sedurlo.
Carolina, una bambina di otto anni, sfata alcuni luoghi comuni piuttosto radicati: che i bambini non capiscano le cose dei “grandi”, che non si accorgano di cosa gli accade attorno perché intenti a giocare, che non conoscano il sentimento dell’odio. Carolina, interpretata da Zaili Sofía Macías Galvá (sette anni), attrice strepitosa, ci porta nella sua solitudine, ma ci mostra quello che il mondo adulto ha perso, l’empatia assoluta con la natura. Preferisce arbusti, foglie, insetti e galline a bambole e tv, e con questi elementi costruisce in fondo ad un pozzo un suo intimo mondo immaginario in cui cerca disperatamente di ritrovare il padre naturale.
“Ho usato un solo trucco con Sofia, non le ho fatto conoscere Arnoldo (Picazzo, interpreta il patrigno) fino all’inizio delle riprese ed anche fuori dal set lui la trattava con distanza e freddezza. Lei è stata un talento, studiava la sera per il giorno dopo ed era assolutamente consapevole del suo ruolo e della responsabilità. Si è presa tutto il peso drammatico sulle spalle”.
Un realismo emotivo appunto, che commuove senza cercare sensazionalismi strappa lacrime. Lasciando perdere tutti i temi sociali, psicologici e culturali che la pellicola mette in campo, posso con sincerità dire che il film apre la porta su un tema scottante e doloroso, quello dell’incomunicabilità tra genitori e figli, anche quando c’è amore. I figli sono persone, anzitutto, non solo “bambini”. Rispettare il loro dolore, la loro ricerca di verità, il loro senso del pudore per non ferirci, dovrebbe essere la nostra principale spinta emotiva.
In questo caso il cinema non intrattiene, ma tocca corde sensibili, perché tra le mura di casa o in un bel giardino, possono nascondersi una violenza latente e solitudini immense.