Spike Jonze: ‘incontro ravvicinato’ con la sua arte sperimentatrice

CON LA SUA SIMPATIA E LA SUA VOGLIA DI CREARE HA CONQUISTATO IL PUBBLICO IN SALA

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Accolto con un grande applauso dai tanti fortunati presenti in sala, Spike Jonze ha incantato il pubblico del Festival Internazionale del Film di Roma, dove ha presentato il suo nuovo film Her – qui la nostra recensione in anteprima, che è in competizione per aggiudicarsi il prestigioso premio cinematografico capitolino. Amato per la sua voglia di sperimentare, Jonze riesce a elevarsi nel mondo del cinema grazie alla sua creatività, cavallo di battaglia che lo ha caratterizzato sin dal suo primo film, Essere John Malkovich, consacrandolo poi come uno dei migliori registi grazie a Il ladro di Orchidee e Nel paese delle creature selvagge. Simpatico, disponibile, alla mano, ha risposto alle molte domande del pubblico, tra una proiezione e l’altra di filmati estratti dalle sue opere. Sa stare al gioco – si è fatto una risata anche quando il moderatore Mario Sesti lo ha chiamato Spike Lee – e rischiare, un po come la sua arte ogni volta ci mostra.

Ci vuoi raccontare il tuo nuovo film e qualcosa dell’intimità che lo caratterizza?

Il nostro film parla di un’intelligenza artificiale, che è raccontata come un vero e proprio essere autonomo e indipendente. Ma se in questo parla di tecnologia, parla ancora di più del nostro desiderio e bisogno di intimità, di quanto oggi sia più complesso coltivarlo proprio per via delle tecnologie. Ma oggi, come secoli fa, il vero problema è insito nelle difficoltà che ci sono nel rivelarsi agli altri. Credo che tutti i miei film siano universi autonomi, molti intimi, indipendenti gli uni dagli altri. Cerco di creare sempre un set che sia moto intimo, e qui era ancora più facile perché Joaquin era spesso solo come attore sul set, oltre a pochi membri della crew. Uno dei punti di riferimento, per il film e l’interpretazione di Joaquin Phoenixqui il nostro incontro con l’attore, era Ultimo tango a Parigi, un film dove hai due attori chiusi in un appartamento che trascendono la recitazione, vivono e respirano insieme al massimo della loro intimità. Certo, dopo queste premesse, quando poi ha visto il look che avevo scelto per lui, Joaquin è rimasto un po’ spiazzato.

Come riesci a far esprimere in modo così reale i tuoi attori nei loro personaggi?

Si tratta sempre di ragionare sui personaggi. In fondo tutti gli attori desiderano scomparire dentro un personaggio, e se il personaggio è abbastanza interessante, loro si lasciano spogliare dal loro aspetto abituale e della loro abituale personalità senza problemi.

Come mai hai deciso di passare dai videoclip al mondo del cinema?

Faccio parte della prima generazione che aveva a disposizione le videocamere. Io e i miei amici siamo cresciuti facendoci video di skateboard, io avevo sempre una telecamera con me, quindi non ho mai distinto davvero i formati e i media dell’audiovisivo. Per me si trattava di fare, non importa quale fosse il medium: filmavo, scrivevo storie, articoli, facevo foto. Volevo fare. Quando ho cominciato a fare cinema, i registi di videoclip erano considerati come esponenti di un’estetica molto precisa: nervosa e dinamica e poco narrativa. Ma quando ho fatto Essere John Malkovich io mi sono concentrato sui personaggi, sulle performance degli attori: era quello che mi assorbiva e che ha dettato l’aspetto visivo del film.

Ci racconti qualcosa del tuo rapporto con gli Arcade Fire, a cui è affidata la colonna sonora di “Her”?

Gli Arcade Fire li conosco fin dai tempi di Funeral, sono la mia band preferita, e sono anche degli amici. Quando ho scritto questa storia, quella di Her, ho iniziato a parlare con Win su quale colonna sonora avrei potuto usare per il film, dato che lui è un esperto del settore. E solo dopo ho che doveva essere proprio Win quello che doveva scrivere la colonna sonora. Credo che il loro ultimo disco e questo film si siano molto influenzati a vicenda.

Da dove prendi spunto per arricchire la tua creatività?

Non so bene cosa dire su come funzioni la mia creatività. Penso però che tutti i grandi artisti con cui ho lavorato abbiano il senso del gioco, la voglia di esplorare, anche quando tratta di scene dure ed emotivamente difficili. Penso anche che i bambini siano affascinanti nel loro essere liberi da convenzioni e costrizioni che noi adulti ci siamo cuciti addosso. Questo è quello che mi affascina: la loro purezza, la loro esplorazione.

In che rapporto sei con gli altri autori contemporanei a cui piace sperimentare come a te?

Non so dire cosa raccontiamo, quale possa essere una definizione della nostra sensibilità comune. Penso però che con colleghi e amici Mike Mills, Sofia Coppola, Wes Anderson, Noah Baumbach, Michel Gondry, Roman Coppola abbiamo lavorato cooperando molto tra di noi, dandoci suggerimenti, scambiandoci note e impressioni, influenzandoci a vicenda, rispecchiandoci gli uni negli altri.

 

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