TFF 31 – Red family: recensione film

KIM KI DUK SCRIVE E PRODUCE UN FILM SULLO SCXONTRO ETERNO TRA COREA DEL SUD E COREA DEL NORD

La divisione tra Corea del Nord e Corea del sud è iniziata durante la Seconda Guerra Mondiale ed è culminata negli anni della Guerra Fredda quando scoppiò la Guerra di Corea che disunì ufficialmente lo Stato.

Ancora oggi la Penisola è divisa e gli attriti sono all’ordine del giorno. Su questa situazione Kim Ki Duk ha scritto e prodotto un lungometraggio poi diretto dal suo pupillo Lee Ju-Hyoung che parla, attraverso una vera e propria spy story, proprio della situazione coreana.

Sono quattro le spie di Pyongyang inviate nella Corea del Sud per fermare i dissidenti. Le loro diverse età fanno sì che i quattro possano fingersi una famiglia come tante con madre, padre figlia e nonno. Attenti a qualsiasi frase o atteggiamento fuori posto e attori felici di una finta esistenza gli infiltrati si ritrovano vicini di casa di una famiglia sud coreana vera, urlante e a pezzi e unitissima, questo li farà sentire in colpa fino  a che la colpa non diverrà una, troppo tarda, presa di coscienza sull’inutilità dei fardelli ideologici.

La famiglia, sempre presente nella cinematografia di Kim Ki Duk e fondamento della società, in questo lungometraggio si sdoppia e diviene metafora delle due parti di un solo Stato che, vivendo l’una a fianco all’altra e interagendo arrivano a comprendersi, a viversi e a capirsi al di là delle forzate differenze cedendo così  alla realtà di essere simili se non uguali, perlomeno nei sentimenti, quando ormai è troppo tardi.

Nonostante la buona regia di Ju-Hyoung, il quale riesce a reggere bene il ritmo narrativo del lavoro dove di minuto in minuto vi è un crescendo di disperazione e dove la speranza occupa solo un angolo remoto del tutto ed è in mano ai più giovani, e la buona idea di partenza Red family alla fine risulta ripetitivo e sembra tentare di allungare all’inverosimile il buono spunto da cui parte senza però, nel percorso, aggiungere nulla di nuovo da un certo punto in poi.

La firma di Kim Ki Duk si palesa alla fine, nell’epilogo, con Arirang canzone feticcio del cineasta ridando senso a un lungometraggio che risulta inutilmente pesante ma che avrebbe potuto essere, se più asciutto, un capolavoro.

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