ULTIMAMENTE LA POLITICA STA RIVALUTANDO L’IMPORTANZA DELL’INDUSTRIA AUDIOVISIVA DOPO ANNI DI OBLIO E OLIGARCHIA. Il CINEMA TORNA PROTAGONISTA
Pedro Almodovar, regista visionario, avanguardista ed estremamente politico, ha tuonato recentemente contro il governo spagnolo, accusato da lui di adottare una ”politica culturale terribile, essendo l’anno peggiore per l’industria cinematografica spagnola”. Effettivamente, vista la situazione socio-economica della penisola iberica, il governo ha tagliato i finanziamenti pubblici per la cultura e quindi, di conseguenza, per il cinema.
Proprio la cultura, a prescindere da tutto, dovrebbe rappresentare l’anima, l’identità, la storia del paese e il cinema, più di tutti, va a raffigurare i cambiamenti della società, essendo uno specchio più o meno veritiero che spinge, dopo tutto, a far uscire di casa le famiglie per svagarsi, divertirsi e sognare storie lontane nel buio della sala. Se in un periodo di austerity come questo, dove regna l’incertezza, il governo riduce i fondi destinati alla cultura, spremendone il succo, dimenticandola ed evitando i problemi tangibili che ci sono, viene meno un circuito che invece porterebbe molti introiti nelle casse dello Stato. Spesso e volentieri, negli ultimi periodi, in Italia, il cinema è stato oggetto di aspre battaglie politiche, divenendo un mero arnese di scambio e di favoritismo senza però essere tutelato da leggi concrete che assistano i produttori, i distributori e infine gli esercenti.
Ora, con il cambio di governo, il nuovo ministro delle Attività Culturali Massimo Bray, sembra interessarsi in maniera molto più concreta all’industria cinematografica, tenendo presente la complessità del settore che racchiude sia l’aspetto economico che artistico. Bray, infatti, sta lavorando su una legge precisa e rigida che regolamenti la pirateria digitale, da sempre una delle piaghe che affliggono il cinema, e in più vorrebbe rivedere gli assetti del mercato che girano attorno alla TV e ad un numero editoriale altamente ristretto (e raffermo). Il potere produttivo in mano a pochi ha generato un risultato altamente squilibrato tra produttori e distributori facendo venir meno la qualità e di conseguenza il sostengo del pubblico. L’omologazione dell’industria, con target stabiliti, influisce in maniera quasi drammatica su delle possibili produzioni internazionali da esportare (se pure con le rare eccezioni, vedi Sorrentino) e ovviamente sulle produzioni indipendenti che fanno moltissima fatica ad andare avanti pur avendo un contenitore di idee sconfinato e originale.
Bisognerebbe agire soprattutto su un determinato pubblico, quello che va al cinema disinteressato, che si vede alzare il costo del biglietto domenica dopo domenica; questa tassa che penalizza lo spettatore ma anche l’esercente (che conta incassi e presenze quasi dimezzati, se pur, anche qui, con le dovute eccezioni) sarebbe da ridistribuire su altri versanti inerenti allo spettacolo che andrebbero ad autofinanziare l’industria audiovisiva stessa. Per non parlare poi delle distribuzioni che premono affinché un cinema scelga questo o quell’altro titolo da essere sistematicamente posizionato in più sale dello stesso esercente, limitando di moltissimo la scelta filmica e distraendo lo spettatore sulla scelta che andrebbe ponderata davanti al botteghino; e, ancora, la pubblicità, discordia continua, che genera malumori, conflitti d’interesse e contraddizioni varie: si dovrebbe escogitare una legge che la regoli e la distacchi totalmente dalle guerre che ne fanno le emittenti TV. Il ministro Bray, del resto, si sta adoperando affinché il cinema torni ad essere quel ”creatore di memoria collettiva, di identità culturale” che dovrebbe essere escluso a prescindere dai ”giochi di mercato” e da una politica che entra troppo spesso nel merito, con annessi e connessi del caso, perdendosi per strada i presupposti concreti e nobili di salvaguardare l’importanza e la bellezza della cultura.
Damiano Panattoni