STEVE MCQUEEN RACCONTA UNA STORIA VERA SENZA GRANDI ACUTI DRAMMATURGICI
DATA DI USCITA:
DURARA FILM: 33 minuti
VOTO: 2,5 su 5
Per ogni libbra di cotone raccolta in meno una frustata in più. In questa frase è concentrato lo stereotipo dello schiavismo in vigore nell‘America dell’800, una “questione” umana, sociale e politica rimasta attiva per tanto (troppo) tempo, almeno fino alla guerra civile che vide stati nord e sud fronteggiarsi sul campo di guerra e su quello, molto più ostico, dei diritti civili.
Il tema scottante era l’abolizione della schiavitù, la scelta di trattarlo in modo quasi autentico è invece quella di Steve McQueen, che con molta intensità, ricordando un certo Malick, ci riporta indietro di due secoli nello stato della Georgia, mentre accompagniamo Platt nel suo percorso di 12 anni schiavo.
Tratto dal romanzo autobiografico del 1856 di Solomon Northup, cittadino (e violinista) di Saratoga, la storia ruota attorno alla figura di un uomo nato libero e reso prigioniero con l’inganno per un tempo interminabile, come il titolo indica. Angherie, vessazioni e umiliazioni all’ordine del giorno, McQueen e il suo estetismo nel girato ci catapultano nei campi di cotone e nelle paludi delle grandi piantagioni senza alcuna via di scampo.
Chiwetel Eijofor si impegna, piange, lotta e si dispera, ma non viene lucidamente (o forse fino all’eccesso) supportato dall’impianto produttivo nell’adattamento per il grande schermo, la storia di un essere umano qualsiasi, che senza particolari lati “fascinosi”, viene dipinto con scarso pathos, manca nel film l’empatia verso il protagonista, abulico nel suo mostrarsi a tratti sensibile, a tratti indifferente alle sorti della sua e altrui condizione.
Il cast di contorno sembra poco ispirato e l’evolversi degli eventi non aggiunge molto ai tanti racconti su una pratica barbara, seppur legale all’epoca, che abbiamo visto molte volte transitare al cinema. Ad eccezion fatta per l’ottima prova di Michael Fassbender, crudele proprietario terriero, 12 anni schiavo scivola lentamente in precario equilibrio tra dramma e staticità e questo ne penalizza fortemente la visione.
L’atmosfera è quella giusta, lo concediamo, il raccolto però non è abbastanza sufficiente.