”Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?”, ”Sono andato a letto presto”. Trent’anni dopo la prima volta di C’era una volta in America
Rappresentare artisticamente il tempo, dilazionato, dilatato o compresso e costipato, è una delle cose più complesse che l’arte, da sempre, si è prefissata di fare. È, poi, uno dei punti costanti della visione che l’artista da al suo strumento, parafrasando così l’idea che ha della vita, dell’esistenza. Il tempo fa da cornice agli eventi, collegandoli o dividendoli. Ci sfugge, il tempo. È effimero, assuefatto, alcune volte bizzarro, spesso lento, quasi mai veloce. Tutto ciò, ancora una volta, rapportato agli attimi che l’esistenza regala all’anima, frutto di un caso che non esiste, tavola bianca di un pittore alla ricerca dell’ispirazione mancante.
Il tempo, come diceva Bergson, è un contenitore di emozioni, sostanze, colori; un attimo non è solo un attimo, tutto confluisce nella memoria, nello spazio e, infine, nella realtà delle cose.
L’arte, dunque, ha provato a traslare il confluire degli attimi in opere, teoremi, musica, scritti e, come in questo caso, in immagini cinematografiche. Cos’è il cinema se non la traduzione esatta del tempo? Un’insieme di impressioni che concatenate le une alle altre formano una narrazione spazio-temporale completa e finita. Il tempo addomesticato. Circoscritto. Rappresentato.
Ovviamente sono pochi quelli che hanno dato spessore ad un processo del genere, regalando al fruitore la sensazione di ritrovarsi sospesi in un Limbo inconsistentemente vero e plasmabile. Il tempo in una mano, in un’immagine che arriva dritta al nostro intimo spazio. Tra tutti, nella Settima Arte, colui che ha tradotto per immagini questa complessità è sicuramente il genio di Sergio Leone. La visione degli eventi, infatti, nella summa che è la sua trilogia, la Trilogia del Tempo, per l’appunto, è la sensazione di dilatamento che il tempo imprime verticalmente alla narrazione. I fatti, qui, si svolgono in un’epoca quasi infinita, agganciandosi quasi agli antipodi, aumentando, quindi, la durata della pellicola, dando l’impressione che sia incolmabile. Di questa trilogia fanno parte C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971) e l’opera omnia C’era una volta in America (1984). Proprio C’era una volta in America, quest’anno, compie trent’anni.
La lavorazione del film durò più di dieci anni, Sergio Leone maniacalmente perfezionista, si infuriò quando a New York, per la prima volta, fu proiettata una versione incompleta e tagliata della pellicola, mostrando così un lavoro lineare e lontano anni luce da quella che sarebbe stata poi la versione definitiva del Capolavoro proiettato ufficialmente e Fuori Concorso al 37° Festival di Cannes. Esistono infatti moltissime versioni di C’era una volta in America: quella curata da Leone dura 229′, montata su un girato da 10 ore, quella da 135′ del produttore Arnon Milchan, mai apprezzata e quella recente del 2012, dalla durata di 256′ in cui il film presenta l’inserimento di numerose scene tagliate ed un restauro audio e video.
C’era una volta in America, grazie alla sua potenza e totalità, riesce ad abbracciare l’intera vita del suo protagonista, quel Noodles che è l’incarnazione perfetta di quello che la fantasia di un artista può generare; Noodles, interpretato da Robert De Niro, riesce a sommare e riassumere l’imperfezione dell’uomo a cavallo di una fabula che racconta l’America dall’inizio del Secolo in quel Meltin Pot che è la splendida, malinconica, irreale e titanica New York. Dal ghetto ebraico al riformatorio, la vicenda di un antieroe che poi diventa uno dei simboli della malavita organizzata, passando per il proibizionismo e tutte le ottuse conseguenze che ne ha scaturito.
Sergio Leone, con il suo C’era una volta in America, scrive un saggio che fonde la memoria all’amore, incolla quel tempo sfuggente nell’oblio di scene incredibilmente infinite, dolorose, tragiche, drammatiche. Con quella città li, a far da sfondo, troppo grande per l’anima di un uomo, troppo piccola per chi è in balia di una tempesta la cui fine può significare libertà. Un capolavoro artistico, il Capolavoro che può essere associato al frutto che la mente applicata di un uomo enorme può coniare. Un’insieme di bellezza, C’era una volta in America, un concentrato di presente e passato descritto dai dettagli di una regia incommensurabile, ancestrale, perfetta.
Sono passati dunque trent’anni da quel cinema, dal quel sorriso beffardo e beato del finale di un sogno generato da qualcosa di profondamente ancestrale, dalla teoria di un film che si fa pratica empatica del tempo immaginato; trent’anni fa, dunque, C’era una volta in America riscriveva la teoria della spazialità, annullando i confini dell’anima, fondendo gli elementi della vita in un unica, ampliata, immagine. Oggi, quel film e quell’arte la, restano a noi come un dono che l’umanità ha voluto fare a se stessa, esempio perfetto, Cinema definitivo, verità svelata.