Belinale 64 – Two men in town: recensione film

REMAKE DI DUE CONTRO LA CITTA’ TWO MEN IN TOWN PECCA DI BANALITA’ NONOSTANTE IL CAST DA OSCAR

Nonostante il cast composto da Jon Gabin e Alain Delon, che in quella pellicola hanno recitato insieme per l’ultima volta, Due contro la città, lungometraggio del 1973 diretto da Josè Giovanni non è di certo da annoverare tra le perle della cinematografia francese eppure è proprio un remake questa pellicola ad aver ispirato il remake di Rachid Bouchare e il motivo per il quale questo sia accaduto va ricercato nella cinematografia del cineasta che, da sempre, ha usato nei suoi lavori storie d’immigrazione basate sul complesso dialogo tra culture diverse e sui conseguenti problemi di integrazione.

In questo caso però lo scontro oltre ad avere come protagonisti due uomini di diverse etnie ha come fulcro uno scontro tra di loro che va oltre il colore della pelle e la loro provenienza.

Willie (Forest Whitaker) è uscito di prigione dopo aver scontato diciotto anni per l’omicidio di un poliziotto, ma lo sceriffo (Harvey Keitel) ritiene che siano stati pochi per cicatrizzare la ferita dell’uccisione del suo vice e per questo  tenta di impedirgli di rifarsi una vita. Lontano dalle ambientazioni francesi della pellicola originale Two men in town è stato girato nel deserto del New Mexico luogo in cui comunque rimangono intatte le tematiche portanti del racconto quali il senso di colpa per l’immenso peccato di aver tolto la vita a un altro essere umano e il tentativo disperato di una redenzione.

Nella pellicola di Bouchare il noir della sceneggiatura si mischia a un’ambientazione western e il frapporsi di altre figure nel duello che c’è alla base tra i due principali interpreti fa sì che il film non riesca mai ad avere un giusto mordente, anzi. La ripetitività e la totale mancanza di dinamismo sono le pecche più grandi di questo lungometraggio che come il suo originale non convince affatto nonostante il calibro dei due protagonisti Whitaker e Keitel che invece di alimentare l’uno la capacità recitativa dell’altro sembrano metterla in sordina esattamente come successe a Gabin e Delon nella versione del ’73.

La banalità con cui i temi principi del lungometraggio vengono trattati insieme a le pecche su citate fanno sì che questo lavoro, nonostante il buono spunto e la buona regia che vanta, non riesca ad abbracciare lo spettatore e a farlo immedesimare come dovrebbe nelle due principali figure che rispecchiano entrambe, allo stesso tempo, vittima e carnefice.

 

 

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