L’IPOCONDRIACO, FOLLE CINEASTA LARS VON TRIER TRA GENIO E POLEMICA
“Cosa posso dire? Capisco Hitler. Ha fatto alcune cose sbagliate, assolutamente, ma posso immaginarmelo seduto nel suo bunker, alla fine … mi immedesimo, sì, un po’” a causa di queste parole alla presentazione del suo lungometraggio Melancholia il cineasta danese Lars von Trier è diventata – come la sua maglietta alla scorsa edizione della Berlinale recitava – persona non gradita al Festival di Cannes, manifestazione che più volte ha visto i suoi lungometraggi all’interno del programma. Era il 18 maggio 2011 e in quello che per due settimane l’anno diventa il templio indiscusso della settima arte, a fianco di una delle sue attrici feticcio – Charlotte Gainsbourg -, von Trier tenne una sorta di goliardico e indisponente monologo autodefinendosi nazista per via della sua passione per l’architetto Albert Speert per poi chiamare, non contento dei dissensi palesi già in conferenza, Israele una rottura di scatole. La Procura di Cannes, dopo che la Kermesse cacciò immediatamente il cineasta senza comunque togliere la sua pellicola dal concorso, aprì immediatamente un fascicolo su di lui con l’accusa, poi rivelatasi senza alcun logico fondamento, di apologia di nazismo nonostante le scuse del regista arrivarono repentine. Intanto il perdono della cittadina di Francia non è ancora arrivato e, a vedere le attuali repliche di Von Trier, cresciuto nella convinzione di essere un mezzo sangue ebreo da parte di padre e per questo meramente provocatorio nelle sue parole, questo non fa altro che portargli nuova, sana, pubblicità.
Provocatore grazie a un’educazione estremamente liberale data da due genitori convinti che un bambino dovesse autodeterminarsi, Von Trier è cresciuto per anni convinto che suo padre fosse Ulf Trie, solo sul letto di morte la madre gli rivelò che il suo vero genitore è Fritz Michael Hartmann, famigerato compositore, e la motivazione che addusse a tale scambio è stata che lei aveva sempre desiderato che nelle vene del figlio scorresse anche velleità artistica. E così è stato.
Il vero nome del regista di Dancing in the dark è Lars Trier ma quel von aggiunto prima del cognome ha per l’artista un valore molto importante: sui nonno, Sven Trier, durante il suo soggiorno in Germania abbreviava il suo nome con Sv e i tedeschi, inconsapevoli dell’acronimo, aggiunsero il titolo nobiliare nella firma dell’uomo, titolo che il regista ereditò quando, all’inizio degli anni 70′ un certo Lars Von Trier pubblica su un quotidiano un articolo su Strindberg intitolato Al limite della follia.
Von Trier si avvicina al mondo dello spettacolo fin da giovanissimo: a 13 anni, complice lo zio Borge Host, ebbe una parte in una serie televisiva danese. L’amore per l’arte visiva viene alimentata da quella stessa madre, che fino all’ultimo gli ha tenuto nascosta la verità sulle sue origini, grazie al regalo che probabilmente ha per sempre cambiato la vita di quel fanciullo che all’epoca era ancora conosciuto semplicemente come Lars Trier: una otto millimetri.
I primi successi mietuti dal regista sono stati quelli legati alla trilogia Europa, titolo che nulla ha a che fare con la geografia dato che l’Europa alla quale von Trier si riferisce è uno stato mentale. Il primo episodio, L’elemento del crimine, incomincia a far uscire il cineasta dai confini della Danimarca che sembra non esser pronta all’innovazione che già all’epoca permeava dai lavori di von Trier. La trilogia Europa viene chiusa, dopo il secondo capitolo Epidermic, nel 1991 con un film che prende il nome dal progetto. Un anno dopo il regista fonda la sua casa di produzione Zentropa insieme al produttore Peter Aalbæk Jensen.
Nel 1995, con il regista connazionale Thomas Vinterberg, Lars Von Trier fonda il movimento Dogma 95 che si rifà a un vero e proprio manifesto che ha come scopo quello di purificare la settima arte dalla cancrena degli effetti speciali e degli investimenti miliardari. Niente luci, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, rifiuto di ogni espediente al di fuori di quello della camera a mano. Il movimento durò 10 anni e diede vita a 35 lungometraggi tra i quali, nel 1998, Idioterne diretto dallo stesso Von Trier.
Il film che ha aperto le porte di Hollywood a Lars von Trier è stato Dancing in the dark, un musical sui generis che ha come protagonista l’istrionica cantante irlandese Bjork e che ha permesso al cineasta di ingaggiare una stella del calibro di Nicole Kidman per Dogville, il lungometraggio da il via a una nuova trilogia dell’artista, che ha come protagonisti proprio gli Stati Uniti d’America, e prosegue con Manderlay. Il terzo atto del progetto America: terra dell’opportunità non è ancora stato girato.
Lars von Trier è a oggi considerato uno dei registi più influenti del panorama mondiale. Genio sregolato, fobico ipocondriaco, polemico e spesso depresso, il cineasta riesce a rendere evento ogni sua consapevole fragilità e ogni suo lavoro ancor prima dell’uscita in sala puntando sulla morbosa curiosità di un pubblico sempre più spesso incapace di guardare oltre la provocazione e di capire l’arte. L’ultimo esempio di questa sua capacità è Nymphomaniac, finalmente nelle sale italiane con il suo primo volume in versione censurata in virtù dell’italica ipocrisia dal 3 aprile (la seconda parte uscirà il 23 dello stesso mese), che nei mesi precedenti alla distribuzione ha giocato molto sulla pornografia di cui il titolo è portatore sano e non ha smesso attraverso i poster e le immagini che hanno dato adito a numerose polemiche rivelatesi futili e frutto degli occhi sporchi di chi si ferma alle apparenze, perché Nymphomaniac non è altro che la lunga e dolorosa digressione di una donna che si vergogna di quello che è stata pur non avendo paura di raccontarlo a uno sconosciuto, interlocutore attento della storia di un’esistenza di cristallo.